La questione era esplosa qualche giorno fa con un (inutilmente) velenoso articolo della rivista americana «Hollywood Reporter» che sin dal titolo accusava il Festival di Venezia di essere «sordo» verso #MeToo e Time’sUp. Le ragioni? Non è difficile immaginarlo. In primis «l’affaire Polanski» e l’esiguo numero di registe nel concorso – solo due nomi, Haifaa Al Mansour (The Perfect Candidate) e Shannon Murphy (Babyteeth). Non c’è da sorprendersi visto l’accanimento contro l’ottantaquattrenne regista accusato di violenza su una minorenne, Samantha Geimer, nel1977, e ora dichiarato persona non grata a Hollywood con l’espulsione dall’Academy.

PER L’ENNESIMA volta non si può che far notare quanto la «ghigliottina» – in un caso giudiziario che la stessa vittima ha detto più volte di considerare chiuso – serva a poco rispetto alle questioni sostanziali sulla disparità di gender nel cinema e non solo, e però inevitabilmente la conferenza stampa di presentazione delle giurie, quasi tutte a presidenza femminile – Lucrecia Martel per il concorso internazionale, Susanna Nicchiarelli per Orizzonti, Costanza Quatriglio per Venezia Classici e Emir Kusturica per le Opere prime –ha finito essere monopolizzata da questo.

«NON RIESCO a fare una distinzione tra artista e uomo. La storia dell’arte è piena di artisti che hanno commesso dei crimini. Lui resta uno degli ultimi grandi maestri del cinema e non credo che si possa aspettare anni per giudicare un suo film» ha risposto Alberto Barbera in risposta a chi gli chiedeva perché mettere in concorso Polanski. E ha aggiunto: «J’accuse è un film che mi è piaciuto molto. Non sono un giudice, ma un critico cinematografico». A Barbera ha replicato in aperto disaccordo Lucrecia Martel: «Io non separo l’uomo dall’artista e credo che la sua presenza potrebbe causare un disagio anche se ho letto che la vittima si ritiene ormai soddisfatta, e io non sono nessuno per sovrappormi alla sua volontà. Di certo non andrò alla cena di gala per il suo film né mi alzerò in piedi per applaudirlo». Detto dalla presidente della giuria che almeno pubblicamente dovrebbe garantire imparzialità di giudizio fa un certo effetto. E difatti poche ore – e molte polemiche social condite di misoginia ovviamente – dopo la regista ha corretto la sua dichiarazione: «Ho riconosciuto molta umanità nelle precedenti opere di Polanski. Non ho alcun pregiudizio nei confronti del film e naturalmente lo guarderò allo stesso modo di tutti gli altri titoli del concorso. Se li avessi, mi dimetterei dal mio incarico di presidente della giuria».

MA NON È STATA l’unica divergenza tra Martel e Barbera lontani anche nel giudizio sulle «quote rosa» – meglio quote pari opportunità. Se per Barbera il solo criterio è e deve rimanere «la qualità» di un film al di là del gender – «trovo l’idea delle quote verso qualsiasi minoranza offensiva» – Martel è invece convinta che in questo momento di passaggio siano anch’esse uno strumento utile. «Il cinema è riservato ancora per lo più agli uomini, alle persone ricche e non di colore. Perché non facciamo per due anni un festival con il 50% di registe e l’altro di registi?» E ha aggiunto: «Sarei rimasta volentieri a casa (ha un braccio rotto, ndr) ma credo che essere qui sia una scelta politica».
Il riferimento più citato nella sala stampa e tra i detrattori della Mostra è l’ultima edizione del Festival di Cannes dove con quattro registe in gara di cui due premiate, Mati Diop e Celine Sciamma, entrambe francesi. È diverso il sistema d’oltralpe dal nostro? Di certo sì, e forse da noi il terreno di battaglia devono essere l’accesso alle scuole, la parità di finanziamenti, il rispetto sul set più delle «quote» in sé che nel modo in cui vengono sbandierate oggi suonano un po’ come una «donazione». Di certo anche la Mostra può e deve partecipare, ma la censura preventiva non è lo strumento per farlo.