Non c’è ormai più da dubitare del fatto che il sintagma Italian Theory designi in prima istanza un problema, un conflitto delle interpretazioni e solo derivatamente un corpus di opere, un fenomeno intellettuale, una linea di pensiero. Lo si è detto fino alla nausea: tra questa e la French Theory, anche solo morfologicamente, i legami sono men che tenui: costruzione estranea al mittente la prima, fabbricazione autoctona e indigena la seconda. Ma appunto: come si fa a testimoniare di un conflitto, di un disaccordo; come si fa a mettere in forma un’ipotesi di blasone filosofico, di ricostruzione di una serie la cui premessa finirebbe per falsificarla, disfacendola o esibendola nella sua impossibilità di totalizzazione e dunque nella sua essenziale irreconciliabilità?

Tra vita e politica

È con un’impresa del genere che si sono recentemente – e felicemente – cimentati Elettra Stimilli e Dario Gentili, raccogliendo in volume gli atti di un convegno parigino dedicato al pensiero italiano, «rimpolpati» di altri e più eterocliti materiali (Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti, DeriveApprodi, pp. 336, euro 20). Si tratta di un libro importante proprio perché non affetta nessuna auto-indulgenza e espone l’impurità dei suoi materiali secondo l’obiettivo preciso di indicare – lì dove più forte è il dissidio – i mezzi, intellettuali e pratici, che potrebbero perfino – se e solo se convenientemente «montati» – diventare una politica. Secondo il ben collaudato schema della forma-sonata, il volume si apre con l’«esposizione» – un manifesto programmatico – in cui Roberto Esposito disegna le ipotesi che giustificherebbero l’assunzione di uno sguardo lungo, genealogico, si sarebbe tentati di dire «epocale», sulle vicende del pensiero italiano, che, da Machiavelli, da Vico, e fino all’operaismo e al lavoro filosofico di pensatrici e pensatori oggi ancora in esercizio, lo avrebbero punteggiato, come punti di ricorrenza, variazioni e «insistenze». Al centro della vicenda, suggerisce Esposito, ciò che campeggia è l’endiadi tra vita e politica svolta sotto il segno del conflitto (insieme pensato e agito).

Segue lo «sviluppo»: assai più agitato e «contrappuntistico». Invero, il libro allinea una serie di contributi che fondamentalmente ne mettono in crisi la premessa. Il saggio di Toni Negri è in questo senso esemplare. Se quella di Esposito è lettura speculativa e periodizzante, quella di Negri è oltranzisticamente congiunturale e dunque politico-polemica in senso proprio. Sono questi i due poli che indicano il campo di tensioni in cui la teoria italiana insieme si installa e si disfa, si istituisce come stemma, impresa, emblema, soltanto per potersi meglio abrogare. La sua araldica è dunque sotto il segno di un perpetuo dissolvimento. La continuità tematica e stilistica si frange sugli scogli di una periodizzazione anti-filologica e genuinamente politica. A questo assiste il saggio di Judith Revel, dedicato alla vicenda – anno di grazia 1966 – che decide degli sviluppi dell’operaismo italiano e dunque della legittimità politica di fare di questo e del suo «post» (che, sia detto parenteticamente, è una di quelle classiche – ma non meno strabilianti – fini che non smettono di finire) un aggregato unificabile e insieme «archiviabile» secondo gli stessi protocolli e mediante le medesime procedure. Lo scrupolo della serie, l’acribia della lectio difficilior è praticata secondo un obiettivo funzionale: la discontinuità è qui un nome della politica e la confusione dell’epoca che cerca di esorcizzare a forza di storie di lotte e corpi è ciò che restituisce davvero il pensiero alla congiuntura e cioè al possibile e all’uso inanticipabile.

E non è un tasto diverso da questo quello che battono anche i contributi di Sandro Chignola e Sandro Mezzadra: non la paura del museo, ma la storicizzazione integrale di un arsenale di problemi, la singolarizzazione delle esperienze collettive, la pluralizzazione – spaziale, geo-politica, linguistica – dei vettori delle lotte e dei pensieri; la provincializzazione di una vicenda intellettuale e del suo milieu. Ancora una volta, questi saggi espongono null’altro che il chiasma tra pensiero e pratica del conflitto italiano e quella costellazione che ha nome «operaismo». Se l’Italian Theory non sarà il sistema solare capace di mettere in orbita e in sesto questi troppo eccentrici pianeti, essa sarà almeno il nome che ne dichiarerà l’amicizia stellare (che, naturalmente, è sotto il segno della più squisita divergenza). E non è poco.

Proprio e soltanto questa pratica filologica spuria, e dunque integralmente politica, giustifica la messa in serie dei contributi tanto vari che, del libro, costituiscono la «ripresa». Da Roberto Ciccarelli che torna sull’immanenza come piano di consistenza del pensiero (tout court, più che italiano – si potrebbe chiosare), a Marco Assennato, che fa i conti, di nuovo, con operaismo e pensiero negativo. È proprio da contributi come questi che emerge nuovamente il dissidio che presiede alla «proposizione» dell’Italian Theory: tecnica, politica, usi, lotte, corpi, opere, tattiche, soggetti, organizzazione, comunità, cooperazione, intelligenza, differenza.

Un nuovo inizio

In questo variegato menù, come una piega o un revers, si annida anche tutto il rimosso e tutto il fantasma di questa teoria impossibile: tutte quante le innumerevoli declinazioni «contrarie» – dialetticamente rovesciate, beatamente contemplate, attivamente fuggite, astutamente disinnescate – che della serie possono darsi non sono soltanto altre immagini della teoria; sono soprattutto altre pratiche del mondo. Italian Theory è l’etichetta che sta in testa a un «registro di possibili»: le pratiche e i pensieri che decideranno a quali fare spazio e a quali dare futuro saranno di questa il più mondano – perché imprevedibile – dei cominciamenti.
Se Differenze italiane è perciò questa mappa del perpetuo sconfinare, Italian Theory è il nome di un conflitto. È un guadagno grande: perché se di conflitto e di differenza c’è bisogno, altrettanto ce n’è di parole (anche italiane) per dire e l’uno e l’altra.