Corre il sangue tra europei in guerra, sull’orlo di un conflitto atomico mondiale. Chi non rinuncia ad onorare la propria umana dignità non può che operare, con le parole e con gli atti, perché la carneficina cessi. Dall’America, il difensore e garante della libertà del mondo intero, per come si dichiara, ci avverte che è in atto un genocidio. Ci informa pertanto che ha disposto di far pervenire alle vittime dello sterminio armi e ancora armi. Nobile dono. Così, almeno, gli sterminati potranno godere del privilegio di essere uccisi non disarmati. Ma non si impegna a fermare la guerra in corso invitando a riporre le armi. Porta armi perché il massacro si alimenti e giunga al suo compimento.

Quanto a genocidi il garante mondiale della libertà può vantare una competenza che nessuno vorrà revocare in dubbio. Buon sangue non mente. Quindici decenni orsono, più o meno quattro, cinque generazioni fa, gli invasori suoi connazionali fornivano ai nativi delle nobili, antiche stirpi indiane alcol di qualità infima, alla bisogna distillato per sterminarli ebbri, con agio e a perdite ridotte. Rifletto: quanto si deposita di violenza endemica nel fondo di una società che ancora non ha saputo dalle sue leggi bandire la pena di morte e che accoglie, con l’arma che ciascun cittadino è legittimato a tenere carica nella fondina, ogni buona occasione aperta all’omicidio?

A tanto ha da ridursi un giudizio equanime sulla storia degli Stati Uniti d’America? No, certo, ma nessun giudizio potrà dirsi equanime se nasconde questo carattere fondativo della federazione nordamericana, figlia dell’Europa. La violenza dell’America gemella della violenza dell’Europa genocida. L’Europa che nel corso di cinque secoli ha spento nel sangue le civiltà di almeno tre continenti e che ottanta anni fa, con la Shoah, ha affondato dentro le proprie carni l’arma dello sterminio. Uccidere e uccidere e non saper l’Occidente cristiano – cattolico, ortodosso, protestante – esimersi dall’uccidere. Torno a leggere Fondamenti d’un’etica umanistica che Mario Rossi, tra gli studiosi italiani di Hegel e di Marx di più elevato prestigio, licenzia nel 1966. Nel 1997 Antonio Tabucchi si ricorda di quelle pagine ne La testa perduta di Damasceno Monteiro («le prime frasi dell’arringa dell’avvocato Loton appartengono al filosofo Mario Rossi»).

Il personaggio di Loton riflette su «cosa significa essere contro la morte» con le parole di Rossi: «ogni uomo è assolutamente indispensabile a tutti gli altri e tutti sono assolutamente indispensabili a ciascuno, enti umanamente approdanti a lui, ciascun uomo è radice dell’essere umano». Rossi elabora qui il concetto di affermazione deontologica e lo intende come l’originario e imprescindibile porsi dell’uomo contro la negazione dell’uomo («quindi è per l’uomo il suo essere contro la morte»).

Tabucchi spigola in pro del suo personaggio dai paragrafi 7 e 8 dei Fondamenti che vale bene trascrivere: «Ma poiché l’uomo non ha esperienza della propria morte, bensì soltanto della morte altrui, dalla quale solo per riflesso può immaginare e temere la propria, e poiché l’approdo e la radicazione interumana costituiscono l’essere umano dell’uomo, dunque l’affermazione deontologica è originariamente l’essere dell’uomo contro la morte di ciascun altro uomo, ancor prima che contro la propria». Così Rossi può ribadire che «l’esistenza fisica di ciascun ente umano e di tutti è la condizione invalicabile di ogni etica che possa riguardare gli uomini».

Che non ci si uccida. Che tacciano le armi. Che non infuri un’ora di più la guerra. Solo questo si dica e si pretenda in nome della dignità di ciascuno. Rileggo con Tabucchi anch’io le parole di Rossi: «La guerra è la potenziale condanna a morte d’una intera nazione. È la istituzionalizzazione dello stato ferino, la distorsione negativa di tutte le capacità operative della scienza e della tecnica, e di tutte le energie dell’ideale e del sentimento. Essa è il male allo stato autentico, originale e terminale, concluso nel circolo della propria perfetta coerenza. È la beffa più atrocemente stupida verso tutte le difficili conquiste della cultura e della civiltà».