È il 2009 quando Carol Gilligan, psicologa e ricercatrice statunitense nota grazie al suo fortunato libro del 1982, In a different voice (Con voce di donna), decide di riprendere alcuni temi ricorrenti della sua ricerca: anzitutto proseguire il lavoro cominciato più di vent’anni fa intorno all’etica femminista della cura. A riguardo, l’arcipelago di idee è piuttosto complesso: la voce, l’ascolto e il riconoscersi già e sempre in relazione, non l’hanno mai abbandonata e vanno a comporre il libro pubblicato nel 2011, Joining the resistance (Polity Press) appena tradotto in Italia da Marta Alberti e Silvia Zanolla con il titolo La virtù della resistenza (Moretti&Vitali, pp. 167, euro 16) e un’introduzione di Federica Giardini alla quale è allegata anche un’utile bibliografia ragionata.
Al centro della riflessione di Carol Gilligan ritorna dunque la voce, per significare al contempo un pensiero già incarnato e un conseguente rifiuto dell’astrattezza del sé – tanto caro alla psicologia. Il dato è dirimente giacché la voce di cui parla l’autrice non attiene solo al fenomeno fisico dell’emissione vocale, bensì alla parabola stessa della libertà e della autenticità delle relazioni.
C’è dunque una posta politica che passa per la voce e che diviene la tessitura del nostro stesso agire. La virtù della resistenza viene sottotitolato con tre punti nodali che corrispondono ad altrettante idee percorse da Gilligan. Resistere, prendersi cura, non cedere sono infatti la rappresentazione di dove la voce si sia depositata. Di dove si agiti il linguaggio e il suo corpo desiderante. Di dove si sia nascosta e da dove non intenda scomparire. Rispetto al tema della resistenza, Gilligan mostra l’ampiezza semantica del termine che risponde ad una plurale declinazione politica – quando quella voce dice la verità in faccia al potere -, e psicoanalitica – quando resistere significa riluttanza ad accogliere nella coscienza contenuti rimasti fuori di essa. È opportuno segnalare come la resistenza politica per Gilligan ha a che fare con la resistenza al disagio. In questo passaggio le esperienze riportate sono numerose: penso alle sue interviste alle adolescenti e alla scoperta di una reciprocità della relazione tra le insegnanti e le studenti che apre all’ipotesi di un’interrogazione profonda delle pratiche, anche politiche.
L’implicazione tra voce e resistenza comincia dall’emersione di alcune domande: «chi parla e a chi? In quale corpo? Raccontando quali relazioni? All’interno di quali strutture sociali e culturali?». In un orizzonte che non si lascia sclerotizzare dalla neutralità della psicologia classicamente intesa, si fa spazio la domanda sulla resistenza: resistere a che cosa e a chi, infine? Per comprendere le direzioni racchiuse in una questione simile, Gilligan studia la dissociazione, punto di rottura che risente della separazione tra pensiero ed emozione. Si colloca così in una soglia già contaminata da un sapere transdisciplinare e, senza alcuna esitazione, crea intersezioni tra psicologia, psicoanalisi, filosofia, letteratura, poesia, teatro insieme alle stesse vite di chi le si mostra dinanzi, compresa la propria. Sembra infatti che il punto più interessante stia proprio qui: quel che non si lascia categorizzare né controllare appartiene all’ascolto, allo scambio empatico in presenza. Ciò accade nella relazione politica, terapeutica, di orientamento didattico, di sondaggio conoscitivo o semplicemente tra donne e uomini; il progetto che spinge in avanti è l’ipotesi di non abdicare alla propria parte autentica in nome di una separazione gerarchica che fa il gioco patriarcale.
Nelle adolescenti, ricorda Gilligan, l’iniziazione al patriarcato è accolta come l’imporsi della rottura di relazioni significative in nome dell’onore, della norma sacrificante e dell’affermazione sociale. È proprio in questo rilievo che le ragazze custodiscono la voce più profonda di se stesse, spesso «sepolta ma non perduta»; resistono un momento prima di diventare donne – laddove donne ha la doppia accezione di guadagno trasformativo e di pericolo verso un’adesione alle regole imposte. Non si tratta tuttavia della mancata comprensione dell’ordine sociale che detta la crescita, bensì di un percorso che Gilligan intraprende per mettere in scena relazioni che contano, di qualità, e che hanno la forza di sottrarsi alla logica scadente del patriarcato – o forse dovremmo dire di ciò che di esso sopravvive. Come viene notato finemente da Alberti e Zanolla, la categoria del «genere» è trattata da Gilligan sia come dispositivo rinforzante i canoni identitari sia come qualcosa che corrisponde più alla differenza sessuale e incarnata di uomini e donne.
«In una cornice patriarcale la cura è un’etica femminile. In una cornice democratica la cura è un’etica dell’umano (…) Prendersi cura esige attenzione, empatia, ascolto, rispetto (…). È un’etica relazionale basata su una premessa di interdipendenza. Non è altruismo». L’etica femminista della cura occorre per liberare la democrazia dalla morsa del patriarcato, laddove quest’ultimo ha una stretta correlazione con la frammentazione della psiche e quindi con il trauma.
L’analisi degli albori della psicoanalisi serve a ravvisarne i cortocircuiti: per esempio quando Freud interrompe una certa forma di intimità psichica e di relazione con le sue pazienti per allinearsi alla cultura patriarcale come fatto naturale; quando cioè accetta l’equivalenza tra la voce del padre e l’autorità morale. In fondo, e non solo secondo Gilligan, Freud dopo essersi accecato da sé come Edipo, pretende che le sue figlie lo accompagnino nella sua cecità. Sofferenza e nevrosi sono ovviamente comprese nel prezzo da pagare. Tuttavia è pur vero che questa non è l’unica storia di cui possiamo avvantaggiarci oggi. Su questo punto, per esempio, come ricorda Federica Giardini nella sua introduzione «Il continente nero di cui la psicoanalisi – in modo analogo ai saperi basati sull’individuazione e la contrapposizione tra il sé e gli altri – non riusciva a dare conto è la relazione costitutiva tra madre e figlia. Una relazione che non può venire meno, pena la sofferenza psichica e fisica, e che non riesce a svilupparsi secondo le regole dell’identificazione maschile, il passaggio ciò dall’attaccamento fusionale alla madre alla separazione che avviene attraverso l’intervento del padre». La decostruzione svolta durante gli anni Settanta, soprattutto grazie al femminismo, ha mostrato che nonostante il nodo edipico esiste dunque qualcosa d’altro e che la frammentazione della psiche come specchio dominante non ha impedito di significare un’altra narrazione e pratica relazionale. Esiste appunto una scena differente illuminata da alcune autrici, da Luce Irigaray a Luisa Muraro, che simbolicamente è stata assunta anche nel lavoro di Carol Gilligan. Forse perché lei non ha ceduto? La domanda è: siamo disposte e disposti anche noi a non cedere?