L’eterno ritorno secondo Tom Cruise. La guerra scena primaria di un’umanità incapace di pensare scenari alternativi. Impossibile salvare il soldato Tom Cruise condannato a morire e a rimorire su una spiaggia che richiama con evidente insistenza il D-Day in Normandia, bardato con un esoscheletro pesantissimo da fanteria dello spazio che deve tantissimo sia a Yoshiyuki Tomino che a Go Nagai. Tom Cruise ricomincia daccapo il suo giorno della marmotta facendosi falcidiare dai micidiali Mimic (omaggio a Del Toro), proiettili vaganti o da schegge volanti. Il risultato non cambia: alla fine del giorno si muore.

Doug Liman, cineasta solitamente tanto più incolore quanto più si sforza di essere originale, con Edge of Tomorrow, crogiuolo di citazioni e furtarelli più o meno evidenti, impasta un decoroso action movie fantascientifico che macina con un certo divertissement suggestioni non proprio banali. L’idea di un passato come un hard disk riscrivibile grazie a una serie di successivi dettagli dove la memoria (l’esperienza) si offre come luogo di un’eterna riscrittura esistenziale è talmente forte da funzionare anche quando, come nel caso di Edge of Tomorrow, è totalmente derivativa. Skrillex che remixa lo sbarco sullo spiaggia di Salvate il soldato Ryan (cosa che in realtà fanno gli Addictive tv), tripudio di esplosioni e acciaio come solo Paul Verhoeven avrebbe potuto concepire, è l’immagine dello spettro di un film che nutre ambizioni altissime e non rinuncia al fuoco di sbarramento della sua vocazione blockbuster.

Ed è nel cortocircuito fra questi due poli che s’insinua il piacere di Edge of Tomorrow, in quanto uno espressione precisissima del limite dell’altro e viceversa. Eppure. Grazie al montaggio di James Herbert, tutto fatto di scarti veloci e minimi che impediscono al racconto di una serie infinite di ripetizioni di diventare realmente ripetitivo, il film mette in campo una sorta di isteria cronofobica dove il tempo diventa la tela sulla quale esibire orizzontalmente le possibilità di riscriverne le limitazioni. Come in un labirinto di morte dickiano, Tom Cruise deve imparare a muoversi lungo una mappatura piranesiana che, ovviamente, non può non evocare l’esperienza videoludica. Riciclando decenni di suggestioni fantascientifiche da ogni latitudine, Edge of Tomorrow è un esercizio di stile che preferisce restare nel cono d’ombra della retorica action. Curiosamente, è proprio grazie a questa scelta di campo che Doug Liman firma il suo film più convincente da molti anni a questa parte. Lontano dalle ambizioni di Jumper o di Fair Game – Caccia alla spia, per citare solo alcuni dei suoi fallimenti più esemplari, Edge of Tomorrow funziona almeno come intrattenimento puro se si accetta l’evidenza di un grado zero solo prudente e mai visionario.

Il solo scarto di plusvalore è offerto da Tom Cruise, la stella più misteriosa del firmamento divistico che ancora una volta gioca con un futuro a rischio di oblivion, efficacissimo nel suo adattarsi alle torsioni del tempo, offrendoci l’immagine traslata del suo stesso continuo riscriversi nel sistema hollywoodiano come corpo in guerra con le altre immagini. Il suo continuo rimorire e l’altrettanto subitaneo emergere dal sonno dice moltissimo sul rapporto che intratteniamo con i corpi dei divi, correlati oggettivi di un cinema che assume senza lutto o crisi la propria dimensione di mappe delle stelle. Tom Cruise affiora così alla percezione come segno di un cinema, continuamente spostato in avanti rispetto allo sguardo, costretto a incessantemente a morire nella speranza di vivere per sempre.