Un’isola deserta popolata da fantasmi, un fuggiasco innamorato che ci racconta una realtà instabile refrattaria al realismo, una macchina produttrice di vita virtuale che rende immortale una sequenza di tempo, l’anima umana che trasmigra alle immagini. Parodia filosofica? Intrigo poliziesco? L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares, che Sur ripubblica nella nuova traduzione di Francesca Lazzarato (pp. 140, euro 15,00) consente molteplici letture, ma oggi, a quasi ottant’anni dalla sua pubblicazione, riserva ulteriori sorprese per il suo carattere anticipatore dell’immaginario contemporaneo.

La figura e l’opera di Bioy sono state viste inizialmente come inseparabili da quelle di Jorge Luis Borges, suo amico e sodale, oltre che coautore di diversi libri. Con il tempo, tuttavia, è assai cresciuta l’autonomia letteraria del più giovane dei due, la cui opera raggiunge una maturità precoce in questo breve ed enigmatico romanzo, ormai diventato un classico del novecento latinoamericano. Il protagonista senza nome scrive un diario nel quale racconta i giorni trascorsi in un’isola dove approda in fuga disperata da chi lo vuole rinchiudere in galera per delitti non meglio specificati. Nell’isola non trova anima viva, ma scopre un insieme di edifici moderni abbandonati dall’aspetto fantasmagorico.

Senonché un giorno vede arrivare un gruppo di persone che occupano queste costruzioni, e lo costringono a rifugiarsi nella zona bassa, vicina al mare, dunque soggetta a continue inondazioni. Qui ha inizio una serie di avvenimenti inspiegabili: a un primo sguardo da lontano i nuovi arrivati sembrano eleganti e spensierati turisti, ma come hanno fatto a sbarcare nell’isola? Che intenzioni hanno? Non passano molti giorni prima che il nostro fuggiasco si renda conto della stranezza di alcuni fenomeni quando cerca di avvicinare gli intrusi, soprattutto Faustine, da cui si sente fortemente attratto. Li vede e li sente e si aggira fra loro senza che quelli avvertano la sua presenza: sembrano muoversi in una realtà parallela. A un certo punto l’uomo senza nome si fa coraggio ed entra nel cosiddetto museo dove colui che sembra essere la guida del gruppo, Morel, sta tenendo una conferenza per spiegare le caratteristiche di una macchina di sua invenzione. Da questo momento il fuggiasco e Morel si alterneranno nella narrazione e nella percezione della realtà.

La lunga e complessa spiegazione di Morel comincia così: «Il mio abuso consiste nell’avervi fotografati senza permesso. È chiaro che non si tratta di una foto come tutte le altre; è la mia ultima invenzione. In quella fotografia vivremo, per sempre. Immaginate un palcoscenico sul quale venga rappresentata per intero la nostra vita, nel corso di questi sette giorni. A recitare siamo noi. Tutte le nostre azioni sono state registrate». Solo che anche questa conferenza è realtà virtuale, eterna, non se ne esce mai, è scomparso il tempo, l’immagine ha sostituito ciò che intendiamo per mondo reale, le persone e le cose sono mere rappresentazioni. Ma qual è allora il punto di vista esterno, oggettivo o soggettivo che sia, della narrazione e in generale della vita in questo romanzo? Quali sono i margini di libertà del fuggiasco nonché testimone di quel che accade davanti ai suoi occhi?

Nel celebre prologo all’Antologia della letteratura fantastica – uscito nel 1940, lo stesso anno dell’Invenzione – Bioy, Borges e Silvina Ocampo elencano le principali caratteristiche del genere, sottolineando che queste narrazioni devono introdurre una particolare ambientazione o atmosfera nella realtà quotidiana e che il soprannaturale, l’azione situata nell’inferno, i personaggi dei sogni, le metamorfosi, l’immortalità, la fantasia metafisica sono esempi tipici di questi procedimenti, rimandando a autori quali H.G. Wells, Allan Poe, Chesterton o Kafka. Gran parte di questi ingredienti compaiono nell’invenzione di Morel, ma la macchina che crea una realtà virtuale fatta di immagini protendenti a un’immortalità che non è la banale dilatazione infinita della vita delle persone bensì l’instaurazione del presente perpetuo, ci rimanda a qualcosa di noto al mondo odierno, qualcosa di inquietantemente familiare che Bioy Casares difficilmente poteva sperimentare o persino immaginare all’epoca in cui lavorò al libro. E tuttavia, questo scrittore cresciuto nella modernità della Buenos Aires primo Novecento, qualcosa lo ha fantasticato, come avevano fatto pochi anni prima Roberto Arlt e Horacio Quiroga, attratti come lui dalle visioni tecnologiche utopistiche e dalla sospensione del tempo «normale» finito in un buco nero di cui i personaggi non conservano memoria.

Fantascienza? Non proprio, letteratura fantastica, preferiva dire l’autore. Ma si entra, qui, in un campo di ipotesi dove interpretazioni e letture anche azzardate abbondano. L’invenzione di Morel è stato infatti letto come metafora della libertà della letteratura in un momento in cui si rompevano definitivamente i legami con il realismo ottocentesco, ma anche come un omaggio al cinema e specificamente al cinema futurista e visionario di inizio secolo. Trattandosi di Bioy Casares, è chiaro il rimando al romanzo poliziesco, di cui era stato, insieme a Borges, cultore e coautore: basti pensare agli elementi di mistero, di morte incombente e di sparizioni, e soprattutto al delitto che spiega la presenza del narratore fuggiasco nell’isola (che anche Morel sia un fuorilegge?)

Cercando inutilmente di fermare la macchina di Morel, il fuggiasco cade nella disperazione: «Gli orrori della giornata sono registrati nel mio diario. Ho scritto molto: mi sembra inutile cercare inevitabili analogie con i moribondi che fanno progetti a lungo termine o che, mentre affogano, rivedono la propria vita nei minimi dettagli. Il momento finale dev’essere convulso, confuso; ne siamo sempre così lontani da non potere immaginare le ombre che lo intorbidano». Ma si illude con un’ultima speranza: «La mia anima non è ancora passata nell’immagine; altrimenti sarei morto, avrei smesso (forse) di vedere Faustine, per stare con lei in una visione che nessuno raccoglierà».

Nell’ottima postfazione, la traduttrice Francesca Lazzarato, che nella sua versione riesce a smussare efficacemente alcune asperità dello stile del giovane Bioy Casares, approfondisce l’analisi sia delle fonti letterarie del romanzo sia del contesto in cui nacque, oltre che occuparsi del famoso prologo di Borges (che in questa edizione peraltro non compare, probabilmente per una questione di diritti) e delle discussioni che all’epoca suscitò.