La storia dello Zio Vanja di Cechov è certo una storia universale e condivisibile, che abbraccia l’intera modernità: una parte della famiglia che rimane sperduta nella periferia del mondo ad amministrare una proprietà il cui valore viene logorato dal tempo e dall’immobilismo, mentre un’altra parte sfrutta quelle risorse facendo la bella vita nel lusso vanaglorioso delle città. I conflitti che possono aprirsi quando le due parti si trovano riunite, appaiono insanabili,ma sono poi ricomposti a forza dal conformismo e dall’accidia che portano a ribellioni solo momentanee.

È la storia bellissima e dolorosa che Cechov traccia in quel testo del 1899, spiegazione di tante rivoluzioni mancate, ma anche presupposto per quelle venture e le lro buone intenzioni. Vinicio Marchioni, attore e autore sensibile, da anni voleva tradurre ai nostri giorni quel testo. Lo fa, da regista e protagonista, con l’aiuto dell’esperienza drammaturgica di Letizia Russo, che trasforma la proprietà terriera in un teatro, con le sue ombre e i suoi laboratori, all’indomani di un terremoto che ha squassato gli immobili e anche le coscienze dei personaggi.

Nasce così Uno Zio Vanja (all’Ambra Jovinelli fino al 25 febbraio), che persegue lo schema del modello originale, adattandolo nella sua cresciuta «teatralità». Uno sforzo nobile, ma che rischia di ingenerare qualche macchinosa confusione linguistica e comportamentale, pur lasciandone apprezzare la positività di intenti.