Weimar 1832. Seduto in poltrona, il vecchio Goethe sfoglia il manoscritto del Faust. È l’anno della sua morte. Nel camino crepita il fuoco, è l’unico rumore che si sente. Il pallido video che anticipa l’attacco dell’ouverture, proiettato sul velo che chiude l’arco scenico, è il segno impresso da Anagoor, l’ensemble guidato da Simone Derai, sul Faust che ha debuttato al Comunale di Modena con la direzione musicale di Jean-Luc Tingaud. Ma allo stesso tempo segnala la volontà del regista di connettere il dramma lirico di Charles Gounod al capolavoro del poeta tedesco. E infatti vedremo l’incontro tra il compositore e l’impresario che nel 1857, in un palco del parigino Théatre Lyrique, gli propone di mettere in musica l’opera.
Se ci si è soffermati su questo aspetto tutto sommato marginale dello spettacolo, è perché mette a nudo la contraddizione cui ci pone di fronte la regia. Che al Faust di Gounod e del suo librettista Jules Barbier siano estranee le filosofiche problematiche goethiane, lo rivela da subito l’incontro con Mefistofele. I libri del vecchio sapiente giacciono a terra. Una musica che arriva dal di fuori lo distrae dall’idea del suicidio. Eccomi, esclama il maligno al suo richiamo. E sarebbe pronto a offrirgli di tutto, ma lui vuole solo la giovinezza. Il risveglio dell’eros, evocato dal corpo di donna che appare dietro una finestrina.

 

 
Liebe, dardeggia a lettere cubitali sulla scena. Il Faust di Gounod è prima di tutto una storia d’amore, come si conviene a questi palcoscenici. Ma è scelta drammaturgica e non fraintendimento, ci dice Derai. Anche se i video proiettati al passaggio da un atto all’altro, con fastidio degli integralisti del bel canto, si ostinano a riportare al presente i temi che si affacciano dal mito faustiano, giovinezza e vecchiaia, la natura intesa come forza generatrice e l’ossessione religiosa che promana da un accelerato tour fra i riti delle diverse fedi. Quasi inevitabile che la protagonista finisca per essere lei, la Marguerite di Davinia Rodriguez, soprano lirica spagnola dalla vocalità sicura e potente. Mentre l’allegra fisicità del Mefistofele di Ramaz Chikviladze, evidenziata dalla nudità della pancia che debordante sulla calzamaglia gialla,prevale sul riluttante Faust di Francesco Demuro.

 

 
Il progetto scenico di Anagoor ha calato la vicenda all’interno di un antro cementizio dove le sottili feritoie che si aprono nelle pareti lasciano filtrare mutevoli tagli di luce. Uno spazio indefinito, reso appena mutevole dagli arredi murari che si alternano a ogni nuovo atto.Un catafalco dove sotto un lenzuolo giace un corpo forse destinato a qualche esperimento scientifico, un giaciglio che è metonimico sostituito della casa, un pulpito attorno a cui si affollano uomini incappucciati… Non si sfugge alla sensazione opprimente di un mondo chiuso su di sé, anche quando si anima delle danze corali della comunità, abbigliata secondo un’iconografia pittorica che si rifà all’epoca rinascimentale della vicenda. Calzebraghe e farsetto per gli uomini; tuniche e cuffiette per il coro femminile, in tutte le tonalità del grigio.

 

 
A un certo punto  all’interno dello spazio grigio è cresciuto un albero, uno spoglio tronco simile a una scultura di Penone. Nel finale troverà ragione e funzione nel rogo verso cui si avvia la protagonista. È salva, canta il coro, cioè la comunità che dall’inizio dell’ultimo atto l’attendeva con in mano le fascine dell’autodafé. La morte dell’eroina, inevitabile nel melodramma come nel dramma borghese, si stacca dalla storia d’amore per farsi strumento di un cupo atto di fede. E non si esce felici.