Quando si può cominciare a dire che una donna è vecchia? Arlene Heyman, scrittrice e psicoanalista di New York firma il suo debutto letterario all’età di settantasei anni con Il buon vecchio sesso fa paura (Einaudi, p.216, euro 18,50, ottima traduzione di Anna Nadotti). Sulla copertina originale, il titolo inglese Scary Old Sex ha le iniziali scritte in rosa shocking che evidenziano, sullo sfondo bianco, il segnale universale di soccorso, che sembra tuttavia intenzionato a scioccare piuttosto che a richiedere aiuto. Perché se da una parte i sette racconti inclusi nella raccolta mettono a nudo l’universalità delle emozioni dei suoi vecchi protagonisti – paura, desiderio, rancore, rimpianto, vergogna, rassegnazione – rendendoli vulnerabili e spesso acrimoniosi, dall’altra mettono a nudo il corpo e quelle passioni mai sopite che alcuni codici di comportamento non rende più «appropriate» alla loro età.

Tanto vale, allora, ricorrere all’ironia – quella ebraica nella fattispecie – che, come un grimaldello, forza porte ermeticamente serrate da secoli di ostinato pudore e ostenta fantasie sessuali infantili e relazioni adultere, malattie terminali e incontinenze, rincorse affannose verso un piacere forse solo tiepido ma che si consuma tra dolci carezze e qualche comprensibile frustrazione, con una dose di viagra e un gel lubrificante, tra uno sguardo compassionevole rivolto al presente e nostalgici ammiccamenti a un passato vigoroso.

Oltre a quello del primo marito defunto, infatti, c’è lo spirito dei Freud che aleggia tra i racconti: quello di Lucian con le sue tele di corpi avvizziti e peni grinzosi, pelle flaccida e seni cadenti – «nessuno al di sopra dei 40 anni dovrebbe essere autorizzato a fare l’amore durante il giorno» – e quello del nonno Sigmund, che vigila severo a ricordarci i nostri tabù più inconfessabili.

Arlene Heyman esordisce tardi ma scrive da quando –-studentessa al Bennington College – frequenta il corso di scrittura creativa di Bernard Malamud – all’epoca quarantaseienne e sposato – con il quale stringe una relazione amorosa che si conclude dopo due anni, nel 1963, al rientro da un viaggio in Italia. Ma è la carriera medica a prevalere su quella della scrittura: «I miei pazienti – confessa Arlene Heyman durante un pranzo in un ristorante italiano dell’Upper West Side – sono una fonte inesauribile di storie, anche se nulla di ciò che mi raccontano è mai stato reso noto».

L’intervista ha luogo nel suo elegantissimo appartamento, davanti a un ottimo tè giapponese e una generosa porzione del suo tempo.

Nel corso della storia la libertà di autorappresentazione, soprattutto femminile, è stata spesso limitata dai cosiddetti «codici di appropriatezza all’età» che hanno imposto comportamenti e stili di vita. Le donne che lei ritrae nei suoi racconti, però, sono forti, dinamiche e determinate. Crede che i suoi personaggi esprimano una nuova consapevolezza dell’età intesa come categoria di vita?
Il vantaggio dell’invecchiamento consiste nell’esperienza, nell’acquisizione di un «saper fare» che ti rende forte e visibile. Dylan Thomas scriveva: «Non andartene docile in quella notte buona. / Infuriati, infuriati contro il morire della luce». Non so quando cominci la rabbia; è triste pensare di dover morire ma ci si può preparare e l’istruzione è uno strumento indispensabile. Inoltre, parlare di sesso in tarda età è la prova più evidente che siamo ancora vive. Per numerose ragioni qualcuno a un certo punto vi rinuncia, ed è un peccato. Talvolta, la rinuncia dipende da un’idea distorta del nostro stesso corpo che ci impaurisce e ci induce a rinunciare al sesso. Nutrire questa falsa convinzione che ci sia qualcosa di sbagliato in noi e nel nostro corpo è un fenomeno molto complesso e al contempo assai diffuso, perché tendiamo a fare paragoni con un altro spesso idealizzato.

Molti personaggi dei suoi racconti sono ebrei. Leggendo le loro storie si ha la sensazione che la loro «ebraicità» si riveli nelle molteplici perdite che lei esplora, comprese quelle corporali, linguistiche e della memoria. In «Niente di umano» e in «Ballando con Matt» per esempio, la Storia assume un ruolo importante…
Nessuna popolazione al mondo può affermare di non aver avuto la propria dose di disgrazie. Nel mio racconto «Ballando con Matt» si parla dell’11 settembre e ricordo che quel giorno mi trovavo in Egitto dove il mio secondogenito studiava la lingua araba. Ero entrata in un negozio per comprare dei gioielli e il negoziante era molto addolorato per quello che era successo, ma era anche convinto che fossero stati gli ebrei a far saltare le torri perché, avvertiti in anticipo, migliaia di loro non si erano presentati a lavoro. Ovviamente era un’illazione senza fondamento perché tra le vittime sono stati ritrovati anche numerosi ebrei: le pari opportunità dell’assassinio, per così dire.Io sono cresciuta in un ambiente ebraico non praticante; i miei genitori erano credenti ma non sono mai stati ortodossi, e per loro era importantissimo che io andassi a scuola e ricevessi un’istruzione: la cosa che temevano di più era che anch’io, come loro, mi potessi sentire ignorante quando frequentavo la sinagoga. È sempre difficile capire cosa accade altrove rispetto al luogo in cui vivi, e io vivo nell’Upper West Side di New York dove risiede una comunità piuttosto grande di ebrei. Molti dei miei amici non lo sono e io non riesco a trovare la distanza necessaria per poter capire quanta ebraicità ci sia nelle mie storie, anche se mi rendo conto che in ogni racconto c’è almeno un personaggio ebreo.

«Happy Isles» e «Chiamata notturna» sono due racconti che esplorano la crudele necessità di venire a patti con l’invecchiamento dei propri genitori e di raccontarsi qualche bugia nel percorso. Quali sono, a suo avviso, le principali sfide intergenerazionali della nostra epoca?
Perdere le proprie facoltà mentali è la verità più sconvolgente da ammettere insieme all’incontinenza, e allora ci si racconta qualche bugia. Ricordo questa scena di me seduta accanto a mia madre – che è morta a 102 anni e mezzo – mentre le raccontavo della vacanza che mio marito e io avevamo fatto a Pearl Harbor: sono nata nel 1942, durante la seconda guerra mondiale, e volevo saperne di più di quel pezzo di storia. A un certo punto le ho chiesto: «Mamma, ti ricordi di Pearl Harbor, vero?» e lei è andata su tutte le furie. È stato allora che mi sono resa conto che aveva dimenticato tutto. Mia madre era un’insegnante ed è stato difficile vederla deperire così. Siamo abituati a ritenere che il nostro cervello sia depositario della nostra identità, della nostra capacità di pensare, ma forse è la nostra capacità di amare che definisce chi siamo. Paul Bailey, un critico inglese, ha scritto una recensione al libro intitolandola Not for Sissies (Non per signorine, ndr), dove avverte i lettori che occorre farsi un bicchierino forte prima di leggere «Happy Isles». Alla fine del racconto, però, la donna più giovane riesce a riconoscere il proprio affetto per una madre che ha dominato la sua intera esistenza e questo dimostra come con gli anni si possa anche diventare più tolleranti.

Il suo amore per il linguaggio e l’orecchio per le lingue sono indiscutibili. La sua prosa può risultare aspra e corrosiva in un paragrafo, ma arrendevole e accogliente in quello successivo. Possiamo dire che la lingua sia uno dei tanti specchi che riflettono la vera natura dei suoi personaggi?
Sono molto attenta a come parlano le persone e anche al modo in cui scrivono. Ammetto di non sopportare i clichés; talvolta il mio povero marito mi dice che sono «speciale» e io, invece di esserne contenta, mi irrito perché potrebbe usare un altro aggettivo…

Nei ringraziamenti del libro lei definisce Bernard Malamud, primo lettore del suo lavoro, «a climate», che la brava traduttrice Anna Nadotti rende con «l’aria che si respira». «Climate» è un termine che evoca ubiquità, porosità, trasformazione. Quale influenza ha avuto Malamud sui suoi scritti?
Il temine «climate» non è stato scelto a caso: è usato da W. H. Auden nella poesia In memoria di Sigmund Freud. Ci tenevo a far capire quale influenza avesse avuto Malamud su tutti noi e soprattutto su di me. Però la sua scrittura è diversa dalla mia: al centro di ogni suo componimento c’è sempre una morale, alcuni dei suoi lavori sembrano quasi parabole, e lo si vede di più nei racconti piuttosto che nei romanzi. Ogni sua parola è scelta con estrema cura e forse da lui ho preso questa sensibilità nei confronti della lingua.
Malamud sapeva parlare un po’ di italiano e un po’ di yiddish, e anche queste sue competenze lo avevano reso vigile nei confronti della comunicazione. Aveva una fiducia totale in me: sapeva che prima o poi avrei pubblicato anch’io. Credo, sinceramente, che si sia innamorato di me perché sapevo scrivere bene: è così difficile amare qualcuno che non sappia esprimersi, se la scrittura ha un ruolo importante nella tua vita.