Filippo Kalomenìdis ha 45 anni, è nato a Sassari da padre greco di origini georgiane, vive a Bologna, insegna al Centro sperimentale di cinematografia di Roma e scrive per il cinema. Lavora soprattutto con le televisioni. Sue alcune serie di larga audience mandate in onda da Canale 5 e da Sky (Il tredicesimo apostolo, Romanzo siciliano). Lavorava, in realtà, perché un anno fa Kalomenìdis ha rescisso tutti i contratti in corso con le emittenti commerciali e ha mantenuto soltanto le collaborazioni con produzioni indipendenti. I motivi e gli effetti di questa decisione sono raccontati nel libro La direzione è storta. Reportage lirico sul Covid 19 e i virus del potere (Homo Scrivens Edizioni, pp. 149, euro 16).

Comincia tutto con una perdita personale, la perdita di un affetto. «Quando si perde ciò in cui più si è creduto – scrive Kalomenìdis – la vita si riduce all’essenza. Se questa perdita, poi, coincide con una Catastrofe che nessun essere umano da un secolo a questa parte aveva più visto sulla Terra, tutto si conta in poche domande. Sopravvivere? Cedere? Mangiare? Non mangiare? Dormire? Non dormire? Amare? Chiudersi? Lottare? Arrendersi? Il resto viene pian piano spazzato via da mesi eterni, da ore che si moltiplicano all’infinito, e le menzogne, le doppiezze spariscono, i vestiti del carnevale durato due decenni vanno in brandelli».

CATASTROFE PERSONALE, quindi, e catastrofe collettiva, il virus. «Con la pandemia siamo visibili agli occhi degli altri come mai sinora, nel nostro bene come nel nostro male. Così decido di agire, perché ho paura. Ho paura di restare solo nel lockdown, rinchiuso con la mia colpa e con la Fine di cui sono la causa, come ciascuno di noi, nessuno escluso. Vado a prestare servizio come volontario per l’emergenza, e scrivo un diario del 2020». Volontario prima a Bologna con la Protezione civile e poi in Grecia, nell’inferno dei campi di raccolta dei migranti, nel lager di Kara Tepe sull’isola di Lesvos. La direzione è storta è il racconto di questa esperienza. Un racconto in versi, «perché quando cerchi dentro e fuori te stesso la verità – dice Kalomenìdis – niente è più adatto della parola poetica». Versi come lame, senza alcuna retorica. Uno sguardo diretto sull’orrore del mondo. Non per restare umani, ma per ritornare umani, un itinerario di recupero di una dimensione autentica dell’esistenza che viene percorso non prima che tutto crolli, ma quando tutto è già crollato.

LA TERRA desolata di Kara Tepe è specchio della condizione umana nell’ordine dato, storicamente dato, del mondo. È lì che servono ora braccia e poesie: «La direzione è l’alba che esce dagli occhi nostri/ la direzione è storta come le braccia nostre/ Carichiamo su un camion medicine che non guariscono/ e le portiamo in un orizzonte/ che non possiamo guardare dritto».
Scrive Barbara Balzerani nella prefazione al libro: «Possono esserci modi diversi per opporsi all’orrore di uno sterminio esibito e reso invisibile da un’ordinaria indifferenza. Filippo Kalomemìdis decide di partire per Lesvos, soldato disarmato che sceglie di disertare per non sentirsi complice dell’arma più subdola del potere: la negazione del diritto all’esistenza dei titolari della nuda vita. Dei destinati alla pena di morte senza che sia stata emessa sentenza. Colpiti dal marchio di esclusi, esuberi, scarti, numeri che possono essere cancellati da un tratto di penna tracciato in una city lontana. (…) L’uomo parte e va nella terra dove Saffo aveva cantato l’amore illimitato. E lì, nella lotta di uomini e donne che resistono all’orrore, ritrova quell’amore e il suo posto».