Sarantis Thanopulos, «Silvia, nel tuo libro scritto con Valentina De Filippis, La tentazione dello spazio (Orthotes), si parla di una forma artistica che obbedisce a una spinta verso l’inerzia, l’“inorganico psichico”. Dell’arte come radicale rinuncia all’intenzionalità fondata sullo slancio vitale. Il legame dell’arte con l’inorganico, materiale esterno alla soggettività su cui essa imprime le sue forme, è fondamentale. La resistenza nel tempo del materiale rende la forma in esso impressa persistente. Le dà una solidità temporale che mantiene vivo, in movimento, il gesto creativo. Nella materia inorganica, di cui è fatta, ad esempio, Notre Dame, non è il medesimo che persiste, ma un gioco perpetuo di forme che, compiute, restano dischiuse a nuove prospettive e travalicano lo spazio in cui sono contenute. La resistenza della materia inorganica, costringe la vitalità alla desistenza, converte l’onnipotenza in potenzialità. Dove lo slancio vitale desiste, per persistere, diventa creatività. Invece che di inerzia psichica – l’incuria responsabile dell’incendio di Notre Dame-, si potrebbe parlare di un “arresto” – caduta necessaria, priva di garanzie precostituite – dello slancio vitale che dà uno statuto non idealizzato e falsato all’opera artistica».

Silvia Vizzardelli, «In questi ultimi giorni abbiamo sentito dire, come una sorta di incitamento alla resurrezione dell’Europa, che assai di più delle pietre che crollano conta lo spirito con cui sono state innalzate, conta il gesto che le ha prodotte. Quel gesto resterebbe vivo, perché, come dici tu, l’atto creativo è apertura di senso, gioco perpetuo di forme. Ne “La tentazione dello spazio” abbiamo cercato, io e Valentina, di dar voce ad una concezione opposta del gesto artistico: l’opera nasce all’insegna della decreazione e della deposizione. Le scarpe di van Gogh sono un’opera d’arte non perché dischiudono mondi di senso, ma innanzitutto perché sono lasciate cadere, gettate fuori dall’uso simbolico. Sono mere scarpe depositate, decantate, cedute. Quale è il gesto che le produce? È un gesto di decreazione in cui si dà morte con la complicità della vita, è una tentazione collassante che stacca l’opera come resto inorganico e non è niente altro che tale resto. Un paio di pantaloni, diceva Barthes, è veramente un paio di pantaloni non quando è indossato, ma quando lo troviamo caduto a terra nella stanza di un adolescente, gettato fuori dall’uso».

Sarantis Thanopulos, «Il gesto creativo non vive di puro spirito, senza le pietre non persiste nel gioco perpetuo di movimenti a cui dà vita. La potenzialità non è smaterializzazione. La carne ha bisogno dello scheletro, perché la sensualità e l’espressività dell’esperienza sensomotoria possano realizzarsi. Ma, al tempo stesso, dobbiamo sottrarci allo scheletro, lasciarci cadere, senza ridurci in macerie inerti. Come scrivi, “il bello è il luogo dove una mancanza si converte in mancamento”. Il gesto creativo ci fa mancare a noi stessi, per riaprirci al legame, mai saturo, con ciò che manca. È una auto-deposizione che ci riposiziona. Le scarpe e i pantaloni, oggetti caduti, insieme a noi, fuori dal loro uso o dal loro significato simbolico, non cadono invano, nel nulla».

Silvia Vizzardelli, «Proprio così. Il mancamento, questa vertigine estetica, pur essendo una sorta di reminiscenza dell’inorganico nell’organico, nulla ha in comune con la derelizione. È semmai il modo più pertinente di descrivere la riuscita. In ogni riuscita pulsa la dialettica istantanea tra tensione e abbandono, tra invocazione e caduta. Ogni creazione d’opera è insieme una resa e un risveglio, in essa morte e vita si stringono in una combutta al limite del pensabile. Il gesto artistico assomiglia al pianto o al riso. Quando non abbiamo più niente da dire, diceva Plessner, l’iniziativa passa al corpo in un collasso rigenerativo».