La semplicità difficile a farsi. A usare questa espressione è stato Bertolt Brecht. Il drammaturgo e poeta tedesco aveva in testa niente poco di meno il percorso che doveva portare alla società dei liberi e degli eguali. Ma andrebbe ricordata per segnalare la difficoltà nel tradurre politicamente la «scoperta» della precarietà come modalità dominante nelle relazioni di lavoro e della diffidenza, ostilità dei precari, uomini e donne, a organizzarsi per contrastare la loro condizione lavorativa e esistenziale. In altri termini, più prosaici e mondani, i precari non sempre vogliono rappresentarsi come classe sociale.

D’altronde chi propone questo cortocircuito privilegia, spesso, una lettura generazionale – precari sono i giovani, mentre garantiti sono i vecchi -, oppure indugia in una lettura di settore, assegnando, di volta in volta, ai lavoratori della conoscenza, al cosiddetto lavoro cognitivo o ai freelance la palmarès della condizione precaria. Rimuovendo così il fatto che ormai «siamo tutti precari». La semplicità difficile a farsi dovrebbe prevedere un iniziale movimento teorico. Ricostruire, ad esempio, come è avvenuta la cancellazione di una intera costellazione di diritti sociali di cittadinanza, di interventi di welfare state, per poi passare in rassegna le strategie di resistenza – il mutuo soccorso, ad esempio – che «fanno società» per poi immaginare, finalmente, una innovazione del Politico che vada oltre il diffuso rifiuto della rappresentanza politica, senza cadere nella seducente trappola del populismo.

La scoperta degli invisibili

Non è dunque un peccato di storicismo la ricostruzione di questa grande trasformazione nei rapporti tra capitale e lavoro vivo. In aiuto arrivano due volumi collettivi recentemente pubblicati da altrettante piccole e indipendenti case editrici. Il primo ha come titolo Piccola enciclopedia precaria (Agenzia X, pp. 236, euro 15) è curato da Cristina Morini e Paolo Vignola e raccoglie gli scritti che nel corso degli anni sono stati pubblicati dai milanesi «Quaderni di San precario» redatti da precari, ricercatori universitari, giornalisti, avvocati del lavoro che hanno provato negli anni a tessere, con pazienza e tenacia, la tela per far emergere dall’invisibilità una condizione sociale e lavorativa divenuta maggioranza nella città lombarda.

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I quaderni di San Precario nascono all’interno di un percorso teorico-politico più che decennale proprio su una figura ormai maggioritaria nel mercato del lavoro e nella vita metropolitana. Percorso che ha avuto nelle May Day (la manifestazione del primo maggio convocata a Milano, dal 2001, spesso in aperta polemica con i sindacati «ufficiali») il momento di massima visibilità. Ma come ogni tentativo che si rispetti di ricostruire la storia di un percorso spesso sotterraneo, in questo volume sono ricordati il collettivo di Chainworkers, l’apparizione di San Precario, l’ironica e dissacrante figura del santo protettore dei precari, ma anche le tante biforcazioni, le deviazioni dall’iniziale sentiero. La Piccola enciclopedia precaria può infatti essere letta come la cronaca di un diversificazione intervenuta nello sviluppo dei movimenti sociali in Italia intervenuta quando una componente del movimento noglobal ha denunciato la rimozione del lavoro dall’agenda politica del movimento, interessato soprattutto ad affermare alcuni principi – la giustizia sociale, il potere senza possibilità di controllo delle multinazionali –; un’attitudine etica che entrava in rotta di collisione con la presa di parola di chi era risucchiato nella spirale di un lavoro che tornava a ridurre l’esistenza a merce proprio quando il lavoro non era più la stella polare nella vita.

Il ritorno dei bohémien

Sono stati, quelli d’inizio millennio, gli anni di una diffusa presa di parola di uomini e donne che denunciavano bassi salari, assenza di diritti sociali e relazioni di tipo servile nell’università, nell’industria culturale, nella pubblicità, nelle case editrici, nella produzione cinematografica e televisiva. E se il movimento noglobal ha pagato il prezzo di sangue della sua diffusione e capacità di creare consenso attorno alle sue tematiche con la macelleria messicana di Genova, il percorso della MayDay e di San Precario si inoltrava in un continente dove le bussole del pensiero critico non sempre indicavano la direzione di marcia giusta.
San Precario si è diffuso viralmente nella penisola. È apparso in ogni città, veicolando, suo malgrado, una «narrazione» legittimata dall’industria culturale attraverso la pubblicazione di romanzi e saggi sulla condizione precaria. Un’inflazione di titoli che ha alternato buoni romanzi a patinati seppur scialbi racconti di giovani scapestrati, novelli bohémien di metropoli che invece dei passages della Parigi di Walter Benjamin aveva nei centri commerciali i luoghi dove giovani da ottocento euro al mese si incontravano per il rito pomeridiano dell’aperitivo.

Sia ben chiaro, la May Day e i collettivi di San Precario hanno tessuto la tela anche dell’iniziativa politica, hanno accumulato vertenze, manifestazioni; hanno stilato anche progetti di legge sul reddito di cittadinanza, hanno provato a esercitare un potere di condizionamento sulle istituzioni locali affinché sviluppassero politiche di sostegno ai disoccupati e ai precari. Ma si sono sempre arenati su una estetica del precariato dove l’agire politico era relegato a dimensione marginale, residuo di un passato da rottamare per poter afferrare al volo le infinite opportunità offerta dalla cancellazione dei diritti sociali di cittadinanza. La forza persuasiva dell’attuale presidente del consiglio sta proprio nell’invito a fare piazza pulita di un passato ingombrante e inutile per sopravvivere in un mondo dove gli spiriti animali del capitalismo possono liberamente scorrazzare.

Ed è a questa estetica del precario che si concentra il secondo volume dedicato a Le culture del precariato (ombre corte, pp. 203, euro 18). Scrittori, filosofi, ricercatori sociali passano al setaccio la produzione culturale attorno alla figura del precariato. Sono analizzati i romanzi che hanno accompagnato la costruzione spesso ideologica di una figura sociale che da vittima diventa imprenditore di se stesso. Con ironia, viene ricordata la frase del filosofo tedesco Peter Sloterdijk quando parla di un «io S.p.A» che, tra narcisismo, solitudine e cinismo, è disposto a passare sul corpo di uomini e donne che vivono la stessa condizione di sfruttamento. Da qui la domanda sul perché una condizione sociale così diffusamente «narrata» non si traduce in potenza politica.

Non solo mutualismo

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L’impossibilità di sintesi definite a priori, l’indisponibilità alla delega, il carattere multiforme, nomade di una condizione lavorativa e il rifiuto programmatico di qualsiasi ingegneria istituzionale che imponga misure di sostegno al reddito in cambio della dell’accettazione di un lavoro qualsiasi sono si gli elementi della presa di parola dei precari, ma più che fattore propulsivo diventano la ripetizione di un mantra celebrativo della condizione precaria. In fondo la scommessa dello sciopero sociale lanciata nei mesi scorsi è stata lanciata per rompere la paralizzante ricorsività di una presa di parola autoreferenziale.

Un lettore attento riconosce in questi due volumi un accumulo di sapere critico e di esperienze politiche già note. Ma non trova sicuramente la risposta alla domanda del perché una condizione sociale divenuta la norma nelle relazioni di lavoro non si traduca anche in capacità politica di modificare i rapporti di forza e dunque di potere nella società. È quella semplicità difficile a farsi, che inquietava a suo tempo Bertolt Brecht. Quel che è certo, però, è la constatazione della diffusione di pratiche sociali incentrate sul mutualismo e delle iniziative economiche basate sulla messa in comune di conoscenza e risorse, come il coworking o l’occupazione di fabbriche dismesse per sviluppare iniziative di lavoro in cooperativa. In tutto ciò, sono evocate le radici del movimento operaio ottocentesco, con il loro carico di mutuo soccorso, di reciprocità, di «fare società». Tutto bene, dunque. La direzione di marcia sembrerebbe essere stata individuata. Ma più che una ripetizione del sempre eguale andrebbe cercata la differenza, cioè quella capacità di non ripercorrere strade già note. Non tratta cioè di tornare all’innocenza delle origini, dopo la parentesi dei rigidi partiti operai, ma di comprendere il perché il mutuo soccorso, la cooperazione sociale ha avuto, a suo tempo, bisogno del Politico per modificare i rapporti di forza nella società.

L’equivoco di una categoria

Nei due libri ricorre spesso il termine moltitudine. Alcune volte per metterla in relazione con un altro, impegnativo termine come «classe». E quando viene fatto è per veicolare la moltitudine come categoria sociologica che segnala la scomparsa appunto delle classi sociali, delle quali si da una arida e inessenziale definizione economica. Ma moltitudine non è una categoria sociologica, bensì un indicazione su come immaginare un Politico che nulla a che fare con i meccanismi della rappresentanza, della volontà generale, della riduzione della classe a popolo. È cioè una griglia teorica che può essere usata per evitare quella ripetizione del sempre uguale, in costante oscillazione tra innocua radicalità e subalternità al potere costituito.