«Non chiamatemi beat. Io non sono mai stato un poeta beat», dichiarava meno di dieci anni fa, già ultranovantenne, Lawrence Ferlinghetti in un documentario sulla sua lunga vita, ed era probabilmente un vezzo. Figurarsi se il poeta che aveva fondato a San Francisco la libreria City Lights, 261 Columbus Avenue, punto di ritrovo di quel gruppo in realtà eterogeneo che fu la beat generation, e poi la City Lights Publishers, destinata a pubblicare molte delle opere beat, poteva davvero pensare di poter scindere il suo nome, anche a oltre mezzo secolo di distanza, da quello degli amici passati con lui alla storia come «la beat generation».

ANCHE SE DAVVERO l’autore di Coney Island in My Mind non faceva parte del nucleo duro del gruppo. Come molti altri, dal poeta buddista e pioniere dell’ecologismo Gary Snyder a Lucien Carr e per molti versi anche al Neal Cassady/ Dean Moriarty di Sulla strada, condivideva con gli altri soprattutto una scena insieme marginale e centralissima nella cultura a stelle e strisce della metà del secolo scorso, un rifiuto dello stile di vita imperante declinato poi da ciascuno a modo proprio. Forse si potrebbe dire che è stato beat chiunque sia comparso nella Leggenda di Duluoz, il ciclo di libri scritti da Jack Kerouac, che li immaginava come un unico volume, ispirato dalla Recherche di Proust. Ferlinghetti è presente in Big Sur, uno dei pochi chiamato quasi col suo vero nome. È Lawrence Monsanto, come la famiglia ebrea sefardita di sua madre, mentre il padre era di Brescia.

Come editore Ferlinghetti è stato protagonista di uno dei processi più significativi nella storia della cultura americana. Nel 1954 fu arrestato, con Allen Ginsberg, per «diffusione di materiale osceno». Si trattava di How!, «Urlo», la lunga poesia che in seguito e per una trentina d’anni sarebbe stata conosciuta, imparata a memoria e citata da una marea di persone, un pubblico infinitamente più vasto di quello degli abituali lettori di poesie. Il processo, tre anni dopo, durò tre giorni e si concluse con l’assoluzione. In un Paese dove il perbenismo dominava ovunque fu la svolta, il segno che i tempi stavano per cambiare.

Certo le poesie di Ferlinghetti, laureato alla Columbia con una tesi sul critico d’arte vittoriano John Ruskin e sul pittore romantico inglese J.M.W. Turner, hanno una qualità pittorica e un gusto ricercato per l’immagine differenti dagli stili peraltro molto diversi tra loro degli altri beat. Era pittore oltre che poeta, con opere esposte in diverse mostre e la più completa è stata probabilmente quella del 2010 in Italia, a Roma e Reggio Calabria. Condivideva invece in pieno la passione di Kerouac per il jazz e il tentativo, consapevole in entrambi, di riprodurre con le parole la ricerca e le innovazioni del Bop e di Bird Parker.

SE UNO SCARTO va ricercato è piuttosto nell’impegno sociale e militante. Ferlinghetti si definiva «anarchico filosofico», ammettendo però che la realtà non permetteva di andare oltre una buona amministrazione socialdemocratica. Era attivo, come Ginsberg, nelle mobilitazioni pacifiste e in difesa dell’ambiente, incluso quello architettonico della vecchia Frisco. Fu lui il presentatore dello storico Human Be-In del gennaio 1967 a San Francisco, il «raduno delle tribù» voluto proprio da Ginsberg che innescò la successiva «Estate dell’amore». Ma il creatore della City Lights è stato il solo a cercare di tradurre quella passione democratica, che lui stesso definiva «populista», in un’estetica consapevole, cercando parole e immagini in grado di raggiungere chiunque, non solo «un pugno di ben coltivati intellettuali».

È UN’ISPIRAZIONE molto diversa dalla prosa ermetica di Burroughs, al cui confronto persino Pynchon, peraltro dei beat erede dichiarato, appare un autore di agile lettura, o anche dello sperimentalismo estremo di improvvisazione bop di Kerouac. Ma sono forme differenti di un sentimento e di una spinta identici, il rifiuto radicale, mai prima e mai dopo realizzato in forme e dimensioni tanto estreme, dell’accademia, dell’establishment letterario e culturale, del potere dei critici, del bon ton del momento, delle convenzioni colte. I beat non le combattevano, con ciò stesso riconoscendone la dignità che si assegna al nemico. Le ignoravano e le ridicolizzarono. Dimostrarono che una sorta di bizzarra scuola nata per strada e nei bar, fiorita al di fuori di ogni riconoscimento culturale, poteva cambiare non solo i gusti letterari ma la vita e la mente, i sogni le ambizioni e gli stili di vita di milioni di giovani di un paio di generazioni.

L’accademia si è vendicata. Ha ridotto la beat generation a una sorta di curiosità storico-culturale, la ha espunta dal suo canone considerandola più o meno come un fenomeno di costume. Ma la Beat Generation, che ha influenzato i principali autori americani da Dylan a Pynchon e di cui Ferlinghetti era quasi l’ultimo esponente (c’è ancora solo Gary Snyder, con i suoi 91 anni) continua a torreggiare, infischiandosene – come ha sempre fatto – di ogni Accademia.