Il Regno Unito rischia ancora di uscire alle ventitré Gmt di domani sera senza accordo dall’Ue e in barba ai voti contro un no deal espressi dal parlamento britannico nei giorni scorsi, indicativi o vincolanti che fossero. Salvo che questa non decida di concedergli l’ormai famigerata, ennesima proroga all’articolo cinquanta, si legga scadenza Brexit, che secondo Donald Tusk dovrà essere di almeno un anno.

Ieri era il giorno del summit speciale di Bruxelles per considerare le richieste di Londra, mentre scriviamo è ancora in corso. E ieri Theresa May arrivava per l’ennesima volta nella capitale belga dopo questuanti pellegrinaggi parigini e berlinesi, insistendo nel chiedere un’estensione non oltre il 30 di giugno, sperando che nel frattempo un miracolo le permetta di far passare di nuovo il suo accordo di divorzio – finora rispedito tre volte al mittente dal parlamento con schiacciante ostilità – entro il 22 maggio, così da non dover partecipare alle elezioni europee. Ma non può che ripetere i propri desiderata senza alcuna possibilità d’inverarli. Spetta alla controparte, i leader dell’Unione europea, e non i suoi burocrati, di decidere la dose di umiltà da somministrare al Regno Unito. Non per nulla sono ventisette contro uno.
May vuole uscire il prima possibile, che novità. Ma lei e il paese sono bloccati. Alla mercé dell’incapacità del parlamento di decidersi per la Brexit da lei negoziata: un non-evento che finora, come l’Azione Parallela di Robert Musil, non vuole succedere, semplicemente perché rimane in eterna preparazione. Lo fa dopo aver detto più di una volta che non avrebbe tollerato un’estensione oltre il 30 giugno, ma ad annusare l’aria di Bruxelles è quasi certo che si dovrà beccare un termine molto più lungo, un anno circa, e senza nessuna voce in capitolo.

I leader europei avranno cercato di accordarsi su quale durata della proroga potesse “pressurizzare” meglio Westminster perché finalmente beva l’amaro calice di quest’accordo e si tolga gentilmente dai piedi, visto che da tre anni non fanno altro che parlare di questo divorzio mentre hanno altri grattacapi. Ma lo fanno sapendo benissimo che questa prima ministra non ha la minima credibilità, è ormai carne politica da macello. Tutto quello che decide e promette sarà probabilmente negato, smentito e disfatto dal suo successore il quale – in uno spasmo del cadavere politico del partito conservatore intento da anni, decenni, secoli a divorarsi da solo in questa guerra civile sull’Europa che lo dilania – potrebbe essere anche il letale Boris Johnson.

Tutta colpa del parlamento britannico? Solo in parte ovviamente, soprattutto quando si consideri che l’accordo negoziato nel corso di due anni con il team di Michel Barnier pareva millimetricamente studiato per andare contro alla ragion d’essere politica del partitello democratico unionista nordirlandese del quale May era diventata ostaggio dopo aver convocato le catastrofiche elezioni anticipate del 2017. Che avrebbero dovuto spazzare via il Labour di Jeremy Corbyn e lo hanno invece galvanizzato, rendendo lo stesso “marxista” Corbyn (che di Marx avrà letto si e no un paio di paragrafi) papabile inquilino di Downing Street, soprattutto ora che si sono aperte delle consultazioni con lui nient’altro che per disperazione. E che si sono finora risolte in nulla.

Nella probabile eventualità che Bruxelles decida per una lunga estensione, May sarà accolta con grida belluine, fiaccole, forconi e accuse di tradimento dalla destra del suo partito (pronta a fare ricorso presso le corti britanniche se l’Ue concederà una proroga lunga), galvanizzata dalle ultime news sulla crescita economica (dovuta soprattutto all’ammasso di materie prime da parte delle imprese nel timore di un no deal) ma soprattutto quando tre settimane prima ammoniva l’aula spergiurando di non voler alcuna lunga estensione: «Il risultato sarebbero infinite ore e giorni nella Camera dei Comuni a contemplare il proprio ombelico sull’Europa. Questa Camera si è gingillata fin troppo sull’Europa» diceva. Appunto.