Il fotoreportage dei movimenti sociali non è solo un’attività documentale. Guardare gli scatti degli operai Pirelli in sciopero a Milano nel 1974, quelli dei «proletari in divisa» sempre a Milano nel 1976, dei punk o dei centri sociali negli anni Ottanta e Novanta, oppure quelli più recenti dei Fridays for Future non è la testimonianza di ciò che è stato. Nel succedersi degli sguardi in questi volti determinati e sognanti, c’è una conversazione con l’al di là di una foto. Nell’estasi sottratta al tempo fluido delle azioni prodotte dalle coreografie dei cortei, o in uno scontro con la polizia, non emerge solo il riconoscimento di persone o luoghi, la malinconia bruciante per un periodo storico.

LA BRAVURA TECNICA o lo stile di un fotografo come Dino Fracchia conta, ma nemmeno questo basta a spiegare cosa rende attraenti le oltre cento foto di cortei dagli anni Settanta al 2020 con i sindacati di base in piazza distanziati durante l’epidemia di coronavirus ora contenute nel suo volume In piazza. Rabbia e passione (Interno4, pp. 222, euro 19). Per dirla con Roland Barthes: la fotografia non è solo questione di studium, ma di punctum. L’immagine deve «pungere», cioè colpire, sprigionare il pensiero e l’energia oltre l’evento che documenta. Si tratta di una forza che arriva al suo spettatore cinquant’anni dopo e si candida a un’eternità particolare, quella dell’istante.

Parliamo allora della concreta utopia che spinge a fare questi fotoreportage e a raccoglierli nei libri. Giornalisti e photoeditor vivono nel loro rovescio. Con i fotografi spesso hanno condiviso le strade, hanno una memoria comune, possono raccontare le storie di quel corteo o di quel movimento. Quando si trovano a discutere quali foto pubblicare sono attratti in quel punctum cercato anche dai fotografi, in prima persona. E qui si ritrovano in molti. C’è un ingorgo formato da chi vorrebbe beneficiare dell’eternità di un attimo insieme ai soggetti di cui parla e tra i quali spesso si riconosce. Un modo per guardare il libro di Fracchia, accompagnato da testimonianze eterogenee da Erri De Luca a Sergio Dragogna (Fridays for Future) è stabilire che il punctum non appartiene a nessuno ed è di tutti.

QUESTA È UN’ESPERIENZA che va oltre la condivisione del momento, determinato dalla condivisione di una vita altra oltre che dell’antagonismo. È la condivisione di una forza che possiamo trovare tanto nelle foto delle manifestazioni di Non Una di Meno quanto in quelle del movimento femminista negli anni ’70. La forza non è mai uguale a se stessa. I soggetti che la creano cambiano e un movimento non assomiglia agli altri. La fotografia può essere la raffigurazione di ciò che non è più. Ma nell’irriproducibile istante che la rende unica c’è un’altra dimensione che non si può vedere perché apparirà nella prossima foto quando ricominciamo a manifestare, e dunque a manifestarci. Questa dimensione è la giustizia. Appare nel punto del passato che ghermisce e indica chi verrà dopo di noi. E a loro che ci mostriamo, felici di essere tra chi non è ancora e chi è stato.