Ai primi del Novecento il nostro Paese, da pochi decenni unificato, amava in teatro i gigantismi coreografici del milanese Luigi Manzotti, che, con messinscene spettacolari forti di centinaia tra danzatrici, mimi e comparse, nonché spesso animali vivi, soddisfaceva il desiderio di un intrattenimento facile, innervato di patriottismo. Fu Gabriele d’Annunzio, in sintonia con quanto di nuovo ferveva nei cenacoli letterari e artistici in Europa, a porre il fantasma della Grecia antica al centro del suo progetto di un’arte scenica nuova in cui poter creare «per mezzo della musica, della danza e del canto lirico un’atmosfera ideale in cui vibra tutta la vita della Natura».

L’intuizione di una nuova danza restò confinata nelle didascalie di alcune sue tragedie, ma spiega l’amicizia che lo legò a Isadora Duncan. L’attrice che interpretò in modo rivoluzionario alcuni lavori del Poeta è notoriamente Eleonora Duse, ed è cruciale sottolineare la devozione che ebbe per lei Isadora, che, appena giunta in Europa, colse nel modo in cui vide l’attrice stare eretta e silenziosa sulla scena in The Second Mrs Tanqueray, la presenza di quella qualità energetica che costituiva per lei il motore della nuova danza.

È una comunità italofona di poche migliaia di individui ad assistere per prima in un territorio oggi italiano alle danze di Isadora. Accade al Teatro Armonia di Trieste, città all’epoca ancora austro-ungarica, il 15 e 16 ottobre 1902 (….). I due spettacoli sono pubblicizzati con le recensioni entusiastiche che di Isadora sono state scritte a Vienna, ma risentono ovviamente di un contesto culturale meno elevato, dove mancano evidentemente artisti e letterati in grado di entrare in sintonia con il suo messaggio.

Il programma triestino è lo stesso che la danzatrice ha portato alla New Gallery di Londra, e in esso troneggia Primavera, un pezzo ispirato al quadro omonimo di Sandro Botticelli. Isadora ne aveva visto una riproduzione ancora giovanissima in America, e ne era rimasta incantata. Le raffigurazioni femminili che popolano il quadro avevano ispirato il concetto di bellezza preraffaellita. Isadora, a piedi nudi e con un abito corto di più strati di veli decorato di fiori, sembra abbia rivissuto a Londra il personaggio di Flora con una misura composta e serena, offrendo una perfetta rappresentazione, si direbbe, della Pathosformel warburghiana della «Ninfa», che, come ha scritto Georges Didi-Huberman, è «aerea ma essenzialmente incarnata, inafferrabile, ma essenzialmente tattile».

Le figure botticelliane affascinano Isadora, che, quando è chiamata nel 1904 a coreografare a Bayreuth il Baccanale del Tannhäuser, prenderà per sé la parte delle Tre Grazie, impersonandole tutte. Leggerezza dei passi, gesti piccoli e discreti, torsioni del busto appena accennate: Primavera è una danza fondatrice del repertorio duncaniano dei primissimi anni. In Angelo con la viola (pezzo pure a Trieste) ispirato al quadro omonimo di Ambrogio De Predis, Isadora danza da ferma ed è solo con le movenze del busto e delle braccia, nonché con l’espressione del volto che trasmette il senso della religiosità. In una sua prima elaborazione dell’Orfeo ed Euridice di Gluck, in programma a Trieste, Isadora, in chitone lungo, è anzitutto Orfeo, che soffre sempre più intensamente della morte della sua amata fino a cadere al suolo stremato dal dolore; in una seconda parte la danzatrice impersona le ombre con movimenti veloci e frenetici, e infine, di nuovo vivendo il personaggio di Orfeo, dà spazio a un’incontenibile gioia dionisiaca alla vista di Euridice.

Questo pezzo, che Isadora porterà a Roma tra qualche anno in un’ampia rielaborazione, è una delle sue danze più importanti della sua carriera. Duncan non improvvisava, come si è a lungo ritenuto. Con ogni probabilità partiva da alcune «cellule» di base di movimento, che le permettevano di ripetere poi certi passaggi dinamici: come il movimento che la portava a chiudere il corpo flettendolo in avanti e come affondando la testa, circondata dalle braccia, sul proprio ventre, o invece la tensione che le portava a spingere le braccia in avanti oppure a lanciarle verso l’alto, o ancora la forza che le faceva portare all’indietro il busto nell’atteggiamento estatico della baccante. Non è un caso che posizioni assai simili si ritrovino nei pittori che l’hanno ritratta, da Abraham Walkowitz a Jules Grandjouan, a Plinio Nomellini e Romano Romanelli.

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In Italia le suggestioni di una danza nuova, non costretta entro i canoni del balletto classico, permeavano qualche circolo culturale in sintonia con le esperienze dell’avanguardia europea. Così una delle prime tragedie messe in scena nel riaperto Teatro romano di Fiesole fu nel 1912 Le Baccanti di Euripide, al quale collaborarono un gruppo di giovani allieve di una non meglio nota signorina Laroche, probabilmente una discepola di Émile Jaques-Dalcroze, che nella sua scuola di Hellerau aveva impostato i suoi corsi di armonia su un apprendimento tramite il corpo.

Del suo metodo di «ginnastica ritmica» si fece alfiere da noi Luigi Ernesto Ferraria assieme alla moglie, Olimpia Claro, a Torino, e qualche eco se ne ebbe sulla stampa. Poche notizie su Isadora si leggevano intanto sui periodici, ed erano ispirate soprattutto dalla curiosità morbosa con cui in un Paese cattolico si guardava a una donna che viveva la sua vita in modo libero, aperto e spregiudicato. (….). Pur grande amante dell’Italia e dei suoi musei, Isadora non ha fatto alcun accenno nella sua autobiografia al suo debutto romano e agli artisti che conobbe nella capitale. Eppure è difficile pensare che non entrasse in contatto con lo scultore Hendryk Christian Andersen e con Olivia Cushing, come lei amici di Henry James e investiti dall’idea di una necessaria rigenerazione fisica e spirituale del corpo, nonché come lei sensibili alla «febbre del tempo», l’esoterismo.
Nel suo frequente accennare alla luce e alle vibrazioni, nella sua consapevolezza panica dell’esistere, e anche nel suo voler rivivere vari personaggi in uno stesso assolo, Isadora condivideva quella percezione così diffusa nei suoi tempi di una realtà, anche interiore, percorsa da energie e pulsioni sconosciute. Certo che il tout Rome, che accolse Isadora al Costanzi il 22 aprile del 1912, raccoglieva la migliore società presente nella capitale. Molti dei recensori delle sue tre serate furono soggiogati dalla sua personalità di «sacerdotessa officiante».

Vi fu chi osservò che con «una lieve inclinazione del collo, uno slancio calcolato delle braccia in avanti, ci sorge viva dinnanzi allo spirito la teoria nuziale di vergini e di efebi raffigurata (…) nel cratere François del Museo di Chiusi». A Roma Isadora debuttò con le danze dell’Ifigenia, un progetto a cui aveva cominciato a lavorare agli inizi della sua carriera e che si era andato sviluppando in una coreografia a intera serata costruita su brani di due opere di Gluck, Ifigenia in Aulide e Ifigenia in Tauride. Il suo punto di vista era quello del coro delle sacerdotesse: esse vivono le varie fasi della tragedia che porta al sacrificio della figlia di Agamennone. La prima parte del pezzo era segnato dalle danze delle sacerdotesse che sulla spiaggia giocano, poi rendono omaggio a Ifigenia suonando flauti e cembali immaginari e spargendo fiori: i movimenti oscillavano leggermente in avanti e indietro e i passi si alternavano a saltelli. Tutto era appena suggerito e non mimicamente descritto.

Nella seconda parte del pezzo, in cui era centrale La Danza degli Sciti, Isadora mostrava al contrario la sua capacità di rappresentare la violenza e l’orrore della battaglia e ciò sia dalla parte di chi attacca (e qui il suo corpo si inarcava per colpire con la lancia e si racchiudeva dietro uno scudo immaginario), sia dalla parte di chi è ferito a morte e cade esanime. Tanto i movimenti erano ondulati e gioiosi nella prima parte, tanto erano forti e dolenti, ancorché sempre aggraziati, nella seconda. Se di nuovo all’Ifigenia fu dedicata il 28 aprile la terza e ultima recita al Costanzi (stavolta, a differenza della sera del debutto, arricchita dai cori del teatro), il 25 aprile Isadora si esibiva in una versione ampliata del suo Orfeo. Si trattava di un altro straordinario assolo. Tra le parti più impressionanti del II atto era la Danza delle Furie, in cui Isadora impersonava sia queste mostruose figure mitologiche sia i dannati, con il corpo piegato da massi di pietra, che invano cercano di entrare nell’Ade. Nella Scène des Champs-Elysées l’artista tornava invece alla serenità composta delle sue danze più aeree. Isadora riscosse a Roma un successo enorme: prima la tragedia che la colpì l’anno successivo con l’annegamento dei figli e poi lo scoppio della guerra ne impedirono però nuove scritture.