Puntuale come la morte, anche quest’anno è arrivata la commemorazione della morte di Pier Paolo Pasolini, il quale è morto ammazzato domani, cioè nella notte tra il 1 e il 2 novembre 1975.

Domani? E cosa c’è di futuribile nella morte violenta di Pasolini? C’è, cari amici vicini e lontani, che toccherà a noi, a sempre più di noi. E come mai? vi starete chiedendo, saltando sulle sedie, o ridendo della pre-visione.

Orbene, chiediamoci: cosa è essenziale in Pasolini? vale a dire: cosa di lui si ricorderà tra diecimila anni? Qualche poesia, qualche film, i romanzi no, i disegni tanto meno. Resteranno, sopra tutto, i saggi degli ultimi anni, quelli raccolti poi nei due libri Scritti corsari e Lettere luterane.

E perché? – vi state domandando. Perché, in quei saggi, che ha scritto tra la fine dei Sessanta e la metà dei Settanta, Pasolini ha raccontato in diretta, in viva voce, la sua straziante e insopportabile scoperta: era venuta “la fine del mondo”.

Pasolini era un poeta, uno scrittore, un cineasta: un uomo d’arte; non era professore, non scienziato dell’economia e della società e della politica, e quindi non adoperava un linguaggio accademico, scientifico, adoperava un linguaggio artistico, metaforico. E così, quando voleva dire che era in atto  la crisi della vecchia civiltà moderna, scriveva che erano “scomparse le lucciole”, scriveva che era venuta, appunto, “la fine del mondo”.

Era il solo a dirlo, questo? No, certo che no. Quaranta anni prima di lui Antonio Gramsci, scrivendo i Quaderni del carcere, aveva scritto che era in atto la crisi della vecchia civiltà moderna, e che stavamo vivendo, fin dall’inizio del Novecento, la fase iniziale della crisi della vecchia civiltà moderna, che lui chiamava “crisi organica”.

Pasolini, dunque. E prima di lui, Gramsci. E dopo di loro? Dopo di loro, cari amici vicini e lontani, gli intellettuali di professione, i professori, gli scienziati dell’economia e della società, della politica, si sono bevuti il cervello, e quindi non hanno saputo prevedere la crisi, capirla, spiegarla, e progettarne il superamento torico. Aspettano che la crisi passi, tra una settimana, come un’influenza, tra un mese, come una polmonite, tra un anno, come un cancro, tra dieci o venti o trenta anni, come una vita.

E Pasolini? Pasolini è buono per le commemorazioni, e le sfuriate. “Ah, il complotto!”

Pasolini ha scritto che nel mondo attuale vivono e vagano “giovani infelici” non più fascisti, non più comunisti, immersi come sono in un “vuoto culturale”, e che uccidono “senza mandanti e senza scopo”. (Anche voi, domani) E ha detto, fin dentro l’intervista a Furio Colombo del 1 novembre 1975, che l’idea del “complotto borghese e fascista” è facile, semplice, consolatoria: “Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. E’ facile, è semplice…”

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