La pandemia che sta riclassificando tutte le categorie sociali ed economiche assomiglia molto da presso ad una rivoluzione. Qualcuno dice che sia la rivoluzione  possibile nel XXI° secolo. 

L’ultimo numero di Civiltà cattolica spiega come il coronavirus poteva  essere poco più di una influenza più coriacea delle altre, se il sistema sanitario occidentale avesse avuto l’articolazione e l’ampiezza che aveva prima della stretta liberista.

Si può aggiungere che sarebbe stata intercettata e documentata prima e con più efficacia se i dati sui nostri comportamenti, riservati solo agli analisti e uffici marketing della Silicon valley, fossero stati condivisi con le strutture sanitarie e nazionali.

Nulla di tutto questo è accaduto ma non per un destino cinico e baro.

Si chiama capitalismo, bellezza. Ora questa tragedia va presa per quello che è: un planetario conflitto politico.

Il centro dello scontro, ce lo ha spiegato nei giorni scorsi l’Economist, il capofila del nuovo capitalismo darwiniano, è la relazione fra vite umane e produzione. 

Dall’altra parte, ancora in ordine sparso e con fare del tutto inconsapevole, un fronte progressista e di sinistra che pone la priorità della salute universale come principio attorno a cui rilanciare la convivenza umana. 

La cassetta degli attrezzi del conflitto fra queste due visioni del mondo sono i numeri. La possibilità di misurare, credibilmente, la diffusione del contagio. 

100mila persone o sei milioni? In Italia stiamo ancora ballando fra questi due estremi. L’incertezza del numero rende tutto poco credibile e poco vincolante.

 Il rischio è lo sfilacciamento di ogni comportamento sociale, nazionale, unitario. 

Allora diventa essenziale che l’insieme dei soggetti pubblici, dal governo agli enti locali, possano disporre di tutte le informazioni per dare senso comune alle indicazioni universali, per rendere vincolanti e condivise le misure di tutela della salute di tutti.

Arriviamo cosi alla centralità dei dati, del controllo di quella massa poderosa e dettagliatissima di dati che produciamo non solo perdocumentare ma per prevenire il sorgere dell’infezione di massa.

Uno stato oggi si identifica nella capacità di controllare questo flusso di informazioni, così come nel secolo scorso si identificava nel controllo dell’economia e della forza.

Uno stato totalitario lo fa in modo autoritario e riservato. Uno stato democratico deve farlo in modo trasparente, condiviso e negoziabile.

Trovo per questo importante che il manifesto possa assumere con determinazione una posizione netta sul nodo della proprietà dei dati, su cui è intervenuto ancora domenica Simone Pieranni.

Il rischio che trovo affiorante in parte della stessa sinistra è una sorta di equidistanza fra pubblico e privato nel controllo dei dati. Né con lo stato né con Silicon valley, si potrebbe dire, echeggiando un lontanissimo slogan.

Proprio la citazione che Pieranni fa del libro di Shoshana Zuboff, il Capitalismo della sorveglianza, mi pare che dovrebbe mettere nel giusto solco il dibattito. 

Oggi il mondo, diciamo in Occidente, è sottomesso a un solo assoluto dominio, spiegava nel suo ultimo testo Remo Bodei, il monopolio privato di un bene comune quale sono i dati e soprattutto gli algoritmi che li ordinano e catalogano. 

Gli stratosferici capitali finanziari accumulati da queste compagnie, il cosi detto GAFAM (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft), che monopolizzano la registrazione e la decifrazione di ogni nostra minima azione, fisica e psichica, non conosce precedenti. 

Siamo oltre la telepatia. Un dominio che diventa non solo frivola potenza commerciale, capacità di concentrare e indirizzare i consumi planetari, ma che con esperienze quali Cambridge Analytica dimostra, interferisce direttamente con il formarsi di ogni libera opinione, alterando elezioni e senso comune di un paese.

Come possiamo ora non porre il tema che proprio Shoshana Zuboff, un’elegante e distaccata professoressa liberal di Harvard, pone al termine del suo libro: questi gruppi sanno troppo per essere liberi. Sì o no? 

Questo illecito e ingiustificato privilegio di raccogliere e combinare, senza alcuna autorizzazione che non sia il frettoloso click a un regolamento illeggibile che comunque non contempla combinazione e commercializzazione a terzi di queste nostre informazioni, un vero elettrocardiogramma emotivo di ognuno di noi, può convivere con uno stato democratico? 

In questo contesto, in cui la tracciabilità di informazioni che ci dicono come e dove si sia concentrato e mosso il contagio e dove ora sono i gruppi di asintomatici che provengono dalle zone più infestate, è plausibile che un pubblico interesse prevalga sulla speculazione privata e condivida questi indispensabili dati, come per altro prevede espressamente il regolamento europea GDPR?

E non è questo il momento, dinanzi all’evidenza di questo prevalente interesse pubblico, e nella prospettiva di un prolungamento di questa incertezza sui ritorni dell’epidemia, di porre il tema di una permanente e strutturata organizzazione dei dati come bene comune, come il pontefice chiede e Civiltà Cattolica argomenta ?

Quale stato possiamo immaginare se rimane permanentemente la diffidenza per un uso distorto di questi dati?

Certo che il pericolo c’è. Come c’è il pericolo che la sanità, la scuola, il fisco possano essere deviati e stravolti. Tocca alla politica, alla sinistra, assicurare che ciò non avvenga, che ogni tentativo si ritorca contro l’avventuriero del momento. 

Ma rispetto al dominio di Google e Facebook che possiamo fare se non farci sponsorizzare qualche convegno e finanziare qualche esercitazione accademica?

Se come sosteneva Friedrich Nietzsche alla fine del XIX° secolo, “gli strumenti con cui scriviamo prendono parte alla formazione dei nostri pensieri”, come stanno partecipando alla creazione  di un’opinione pubblica queste piattaforme che raccolgono i pensieri di 4 miliardi di esseri umani?

E queste piattaforme che senso etico hanno e come vi posso convivere se, avendo i dati di tutte le minime increspature emotive della popolazione globale, non hanno avvertito la necessità di farci sapere che qualcosa stava accadendo a novembre, a dicembre a gennaio? Quei dati servono subito a tutti.