In questi giorni abbiamo avuto modo di ripassare un po’ di storia contemporanea, la storia dell’89 quando cadde un muro costruito non ai confini del Messico o in Medio Oriente ma a Berlino nel cuore della Germania e dell’Europa. E nell’Italia paese di frontiera, quel crollo provocò un fragoroso terremoto con l’annuncio di Achille Occhetto alla Bolognina, la drammatica metamorfosi del Pci e la nascita travagliata del Partito democratico della sinistra. Anche i più fermi critici della svolta di Occhetto convenivano sul fatto che bisognava fare i conti con una sconfitta storica. Che si palesava nell’Est sovietico e, con ferocia, in Cina dove le manifestazioni degli studenti erano state represse nel sangue con il massacro di Tian An Men.

Difficile che tutto restasse com’era nel paese che aveva il partito comunista più importante dell’occidente. Alla domanda del «chi siamo adesso» bisognava rispondere e purtroppo le risposte furono tutte inadeguate.

Il muro cade a Novembre ma già a maggio Occhetto metteva le carte in tavola: «E se cambiassimo nome? E se facessimo un congresso straordinario?». Come si vede sono domande che tengono banco nel Pd di oggi. La svolta di Occhetto puntava a un doppio obiettivo: allargare il punto di vista teorico con lo sguardo rivolto ai movimenti femministi, ecologisti, pacifisti, all’internazionale socialista; e far cadere il muro italiano di un Pci tenuto fuori dal governo del paese. Su questo intento a Occhetto va riconosciuta l’onestà intellettuale di voler rompere un muro anche culturale, come quando, al congresso precedente quello della svolta, mise al centro della relazione il problema dell’Amazzonia, della deforestazione e dell’ambiente, prendendosi gli sberleffi di molti dirigenti e intellettuali.

Da una parte il superamento della vecchia identità in nome di una nuova fase costituente della sinistra, nella convinzione che la svolta del Pci imprimesse un rivolgimento di tutto il sistema politico. Come poi avvenne nei primi anni Novanta, ma rovinosamente: con la fine di quel sistema dei partiti, con l’avvio della stagione dell’antipolitica, del maggioritario, del modello neoliberista, del ventennio berlusconiano.

Dall’altro sembrava che la sinistra che si opponeva alla svolta caricasse sul cambio del nome la responsabilità di tagliare le radici, che tuttavia erano già abbondantemente nutrite da una tradizione moderata e subalterna, dentro le compatibilità del sistema. Contro la svolta nasce un nuovo partito a sinistra, Rifondazione comunista, di superamento del comunismo novecentesco anche sul piano della non violenza, di contaminazione con i movimenti. Con risultati elettorali e di consenso che raccoglievano una domanda identitaria contro il «revisionismo» di via delle Botteghe Oscure. Poi però la strada delle due sinistre, specialmente se dobbiamo guardare alla credibilità, alle percentuali e al consenso oggi, si è rivelata fallimentare rispetto alla società italiana. Scelte sbagliate, personalismi, prevalenza non della rivoluzione permanente, ma della sindrome tafazziana della scissione permanente.

Grande dibattito, bisogna riconoscerlo, specialmente se confrontato con il vuoto spinto di oggi. Un grande partito che mobilita i suoi organismi dirigenti e discute in un congresso straordinario. Sulle pagine del manifesto parlano tutti, il giornale si schiera per il No. Ma c’è modo e modo di difendere la svolta occhettiana. Per esempio c’era quello di Bruno Trentin che la sosteneva non «come dichiarazione di fallimento del comunismo che, nel bene e nel male, ha contribuito alle gigantesche trasformazioni sociali di 70anni di storia. Ma di una crisi del riformismo storico con il riemergere di culture liberali e libertarie».

Bisognerebbe ricordare che cosa erano stati gli anni ’80 perché segnavano all’Ovest il tempo di una generalizzata sconfitta del movimento operaio. Gli anni che seguirono alla caduta del Muro hanno scavato così in profondità da mettere esplicitamente in discussione le stesse Costituzioni post-belliche, finite sul banco degli accusati perché appunto basate sul patto keynesiano della redistribuzione. E cioè delle condizioni stesse che hanno segnato la nascita e la storia della sinistra e della democrazia nel Dopoguerra.

L’arresto della forza propulsiva della terza via ci presenta il conto con la consumazione del vecchio modello socialdemocratico mentre nessun nuovo modello, nessuna visione, oggi, è lì a sostituirlo. Al contrario, il progressivo slittamento verso lo stato minimo e la governance della globalizzazione hanno prodotto il precipizio dei partiti socialdemocratici europei, l’esplosione dei populisti e dei nazionalisti, delle nuove destre. Con il paradosso che la risposta alla crisi del 2008 è venuta dalla destra con il nazionalismo mentre siamo di fronte a un mutamento ai limiti dell’autodistruzione ambientale.

Ci vorrebbero i pensieri lunghi di un grande leader del movimento operaio come Pietro Ingrao oggi che la politica ci sembra cinica, una marmellata a ciclo continuo.

In un suo scritto, Ingrao spiegava così la politica: «Io sento penosamente la sofferenza altrui, dei più deboli, o più esattamente dei più offesi. Ma la sento perché pesa a me, mi fa stare male. Quindi in un certo senso, la politica non è un agire per gli altri, è un agire per me». O ci servirebbero gli incitamenti di un grande economista come Claudio Napoleoni che ci invitava a «cercare ancora». Per un’idea della politica diversa, in cui il partito è uno dei nodi, né l’unico, né il principale.

Molto semplicemente ci dicono che il comunismo è un ideale che va al di là delle vicende politiche, ha le sue radici «qui e ora» piuttosto che nei suoi tentativi storici, ha i suoi fondamenti materiali nell’impossibilità di garantire «qui e ora» il libero sviluppo di ogni persona come condizione del libero sviluppo di tutti. Ideologia? No, piuttosto direi lotta alla «falsa coscienza» che riscopre ogni volta l’eternità del capitalismo.

Ma veniamo ai muri dell’oggi: dalla caduta del muro di Berlino al muro dell’Umbria che stava in piedi da sempre, ridotto in macerie con il trionfo della destra italiana. Naturalmente si parla di Terni, degli operai che dopo tante lotte perdono la speranza di un miglioramento collettivo e cercano una strada individuale, un altro modo di cavarsela perché la risposta neoliberista ha modificato il modo di pensare, il senso comune, i rapporti tra le persone.

Allora tutto è perduto? Beh, a guardare i numeri della nostra sinistra sembrerebbe proprio di sì. Ma non se guardiamo la forza dei nuovi movimenti, ultimo quello dei ragazzi sul clima che spontaneamente si mobilitano chiedendo di cambiare il modello di sviluppo, di cambiare vita.

Solo che questa battaglia contro l’egemonia culturale della destra dovrebbe avere una forza maggiore, perché è da questo terreno, per tanti motivi, che dipende lo sbocco del populismo moderno. Le sinistre, tutte, in tutte le loro sfumature, sono inadeguate, impreparate, questo popolo che vota a destra non lo capiscono, lo dicono le geografie urbane dei risultati elettorali, con la ZtL e tutto il resto.

E lo diceva già Gramsci quando osservava, nei Quaderni dal carcere, che a volte «il popolo sente ma non sempre comprende e l’intellettuale comprende ma non sempre sente». La famosa «connessione sentimentale» che sembra perduta per una sinistra senza popolo. Per quanto possiamo lavoriamo per riconquistarla, contro la personalizzazione della politica e le sub-culture di massa che alla fine sdoganano la destra come discorso corrente, amalgamando ansie ancestrali con la leggerezza della società mediatica. Facendo breccia nella sinistra governata da un giovane politico che si è ridotto a fare un suo partito, anziché Forza Italia, Italia Viva.

Certo, siamo in molti a pensare che è meglio perdere con le proprie idee, che governare con quelle degli altri, ma questo non esclude che, in momenti di particolare pericolo e forza di movimenti eversivi e populisti, si possano fare scelte di unità democratica. L’attuale governo sicuramente non è il migliore del mondo, ma l’alternativa sono le destre con pieni poteri che, a trent’anni dall’89, possono determinare uno sbocco della crisi nella barbarie che mette a rischio la sopravvivenza del pianeta.