«Hic est metallus». Uno dei grandi linguaggi che accomuna tutti i paesi africani è la musica. Dal jazz al blues e poi al rock, l’Africa è il luogo dove la musica contemporanea ha parte delle sua radici. I ritmi africani salparono sulle navi negriere e arrivarono nel Nuovo Mondo sbarcando al mercato degli schiavi di Congo Square a New Orleans. Si diffusero per la Louisiana diventando il jazz, scandirono i lavori delle piantagioni di cotone trasformandosi nel blues, crearono quel brodo primordiale di folk europeo e balli tribali da cui nacque il rock’n’roll. Oggi il progresso economico e sociale che il continente ha avuto negli ultimi anni ha portato a un recupero di una formidabile tradizione musicale, ma ha arricchito infinitamente la tavolozza dei colori liberando in ogni paese energie creative e dando origine a contaminazioni sorprendenti. L’Africa, da cui tutto ebbe origine, si sta riappropriando di tutti i generi e li trasfigura. Non fa eccezione neppure l’heavy metal che per decenni ha simboleggiato l’angoscia giovanile dei ragazzi bianchi occidentali, ma che traeva le sue radici anch’esso dal blues. Dal Maghreb a Capo Horn la scena afro-metal ormai va oltre l’esotica bizzarria. È una sfida creativa e sociale, una coraggiosa rivincita contro tabù culturali, fanatismi ed estremismi religiosi.

Algeria

Quando si parla di «Décennie noire», decennio nero, in Algeria si fa riferimento alla sanguinosissima guerra civile che vide di fronte il governo militare e alcune formazioni di insorti islamici tra cui il GIA. La musica fu pesantemente coinvolta in questa tragedia che è costata la vita a più di 100mila civili. Gli estremisti islamici scelsero come obiettivo anche i musicisti della locale scena Raï, che contaminava la musica tradizionale berbera con sonorità più moderne come il pop e il rock. Uno dei massimi esponenti del genere, Cheb Hasni, fu ucciso nel 1994, altri interpreti decisero di andare in esilio. Per anni il panorama artistico musicale algerino fu un deserto. Incredibilmente anche in questo clima di paura e violenza sopravvisse nel paese una scena metal. Il protagonista era, ed è ancora, Redouane Aouameur, un vero e proprio «attivista» metal e oggi leader dei Lelahell. Sfidò il terrore del decennio nero con il black metal, continuando anche negli anni più bui a suonare senza nascondersi militando in band chiamate Carnavage, Litham e Devast. «Sono stati anni duri – ha ricordato in un’intervista -, ma abbiamo continuato a fare metal e a organizzare concerti. I nostri show in quel periodo sono stai i migliori, con più di mille spettatori. Suono questa musica da dieci anni e nessun estremista ha mai tentato di fermarmi. Forse c’era più metal alla radio e in tv all’epoca che oggi. Siamo tornati ad essere un fenomeno underground». La sfida è anche contro i pregiudizi: «C’è un’idea completamente falsa di quello che accade. Si pensa che sia dominato da islamisti radicali. Qualche tempo fa ho contattato l’Istituto italiano di cultura per organizzare uno show in Algeria e per invitare una band metal italiana. Più di dieci gruppi hanno rifiutato di venire perché non avevano idea della vita reale di questo paese e dell’attuale situazione. Dieci anni fa quando la situazione era molto peggiore era quasi più facile trovare stranieri che venissero qui a suonare. Penso che l’immagine del nostro paese sia stata totalmente distorta». L’ultimo album dei Lelahell si intitola Al Insane e la band stessa lo descrive come un disco per i fan di Behemoth, Cannibal Corpse, Decapitated o Suffocation. Estremisti sì, ma del metal.

Angola

«Sono persone che hanno visto e vissuto cose inimmaginabili». Parole del regista statunitense Jeremy Xido che ha ideato e diretto il documentario Death Metal Angola (Vedi Alias del 31.10.2015). Il paese africano, ex colonia portoghese è stato per quarant’anni un campo di battaglia: prima un terreno di confronto tra potenze della guerra fredda, poi scenario di una guerra civile estenuante. Riemerso dalle macerie, ha conosciuto un improvviso sviluppo economico grazie alla presenza di materie prime, ma la crescita è stata, come spesso accade in Africa, sbilanciata e mal distribuita. In questo ambiente il metal è diventato una forma di espressione quasi catartica. Il documentario di Xido racconta la storia di una donna, Sónia Ferriera, responsabile di un orfanotrofio che organizza il primo festival metal a Humbo, la seconda città del paese. La musica è aggressiva, ma rappresenta solo lo sforzo di dimenticare la violenza vera e sublimarla in quella musicale. Si è creata in questi anni una comunità di band quali Before Crush, Black Soul, Mental Grave, Dor Fantasma, Instinto Primario, Nothing 2 Lose. I più affermati sono forse i M’vula, combo rap-metal che sta avendo una buona visibilità anche nei paesi di lingua portoghese.

Botswana

Skinflint, Metal Orizon, Wrust, Crackdust, Overthrust, Amok, Gunsmoke, Rockfather e Warmachine. Le band non mancano. La scena metal del Botswana è rigogliosa e inarrestabile ed è ormai un consolidato fenomeno che si è guadagnato servizi sui network televisivi internazionali e reportage giornalistici. L’aspetto più stupefacente è che questa piccola rivoluzione ha una genesi italiana. La band principale, gli Skinflint, sono un trio di black metal formato da Giuseppe Sbrana, voce e chitarra, Sandra Sbrana, batterista, e Kebonye Nkoloso al basso. Giuseppe e Sandra sono due cugini, africani ma di origine italianissima. Loro nonno, Giuseppe, arrivò in Botswana negli anni Settanta e nella capitale Gaborone aprì il primo reparto psichiatrico del paese. I loro genitori Ivo e Renato nel 1974 fondarono una delle prime rock band africane, la Nosey Road Rock Band. Oggi Giuseppe e Sandra sono la punta dell’iceberg di un movimento che ha finito per generare un melting-pot unico che qualcuno ha definito «cowboy death metal»: sonorità nordiche death-black metal, miti e tradizioni africane, giubbotti di pelle, borchie alla Judas Priest e un pizzico di gusto western degno di Sergio Leone. «La mia idea – ha spiegato Giovanni Sbrana – era quella di unire la cultura africana con la musica heavy metal. Ci sono le guerre tribali, la spiritualità, la mitologia e questo dà un’atmosfera originale al nostro stile. L’Africa è il futuro del metal». L’ultimo album degli Skinflint si intitola Nyemba e ha portato la band anche a calcare i palcoscenici internazionali. Resta la sfida contro i pregiudizi: «In molti pensano che sia un culto, che ci sia qualcosa che riguarda la religione, il satanismo – spiega Shalton Monnadikgang, chitarrista degli Overthrust – ma è solo musica».

Egitto

La mitologia egiziana fa parte dell’immaginario metal da sempre: piramidi, mummie, animali sacri e schiavi. Gli Iron Maiden ci hanno costruito per anni le loro scenografie. Non deve quindi sorprendere se gli egiziani hanno deciso di riappropriarsene a pieno titolo. Basta ascoltare quella che oggi è probabilmente la più possente e autorevole metal band a sud del Mediterraneo, gli Scarab. Il loro death metal non sfigurerebbe su nessun palcoscenico internazionale e il loro ultimo album Serpents of the Nile, uscito nel 2015, è stato giudicato uno dei migliori album rock africani dell’anno. Nati nel 2006, sono un sestetto originario del Cairo che trae ispirazione da gruppi quali Morbid Angel, Six Feet Under, Cannibal Corpse, Bolt Thrower. Il loro nome «scarabeo» fa riferimento agli antichi riti egizi da cui traggono ispirazione tutti i loro testi. «La nostra comunità metal sta crescendo dagli anni Novanta – ha raccontato il chitarrista Al-Sharif Marzeban – e ci sono tanti fan della scena death/black/doom». «Ci sono sempre uno o due metal show al mese al Cairo – ha aggiunto il vocalist Sammy Sayed -. Non è certo una scena mainstream, ma non deve neppure esserlo. L’Egitto è il luogo dove tutto ha avuto inizio: il misticismo, la religione e la magia e anche oggi accade molto di più di quanto si possa immaginare». I Nathyr sono invece di Alessandria e definiscono la loro musica extreme folk metal: voci cavernose, chitarre death e contaminazioni sonore mediorientali. Il loro vero valore aggiunto è l’uso della lingua araba. Il problema di Alessandria, hanno raccontato al magazine online egiziano rockeramagazine.com, è la mancanza di spazi per i concerti dal vivo. Anche le Massive Scare Era (vedi Alias del 16.04.2011) provengono da Alessandria. Sono l’unico gruppo heavy locale guidato da donne. La cantante è Sherine Amr, 30 anni. Nella sua carriera decennale ha sfidato ogni convenzione e pregiudizio. «Se una donna canta è considerata una prostituta. Sì è dura. Se cammini per strada con il trucco è come se invitassi ad essere molestata». Si presenta con dei folti capelli rossi al vento, ma ammette di andare in giro spesso con l’hijab per evitare problemi. «Mia madre mi disse che non mi avrebbe permesso di suonare con degli uomini», così scelse come compagna di palco la violinista Nancy Mounir. La prima volta che la sentì cantare si spaventò: «Non vorrai urlare in questo modo?». Oggi le Massive Scare Era e la loro musica che sa fondere atmosfere arabe a un impenitente hardcore punk, sono una delle formazioni più celebri della scena underground del paese e si esibiscono spesso all’estero.

Kenya

Radicatasi a partire dalla fine degli anni Novanta attraverso il passaparola e alcune trasmissioni radio, la musica rock ha iniziato a conquistare anche il pubblico giovanile dei paesi est africani e soprattutto del Kenya. Il rock più tradizionale ha aperto le porte anche alle forme più estreme e sperimentali. Una band come i Dove Slimme suonano un hard rock di assoluta qualità guidati dalla voce femminile della vocalist Jillian e citano come ispirazione Hendrix e i Muse, nello stesso ambito si possono classificare i Murfy’s Flaw anch’essi guidati da una voce femminile o i ParkingLotGrass. Ma esiste anche un’ala più oltranzista con band punk, hardcore e grind come Class Suicide, Last Year’s Tragedy, Koinange Street Avengers che senza particolare visibilità nei media locali sta creando una nicchia di fan. Nascono meravigliose contaminazioni: in uno dei più recenti video i Last Year’s Tragedy cantano un hardcore da bassifondi di New York nel cuore della Savana.

Nigeria

Basta nominare Fela Kuti per capire il ruolo fondamentale della Nigeria sulla musica africana. Ma la stagione d’oro del genere che venne battezzato afro-beat si è conclusa da un pezzo. Un libro e un disco antologico pubblicati dalla Now Again Records intitolati Wake You Up: The Rise & Fall of Nigerian Rock raccolgono il meglio di una stagione memorabile a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta che vedeva un rinascimento rock che si contrapponeva a uno scenario sociopolitico scandito da guerre civili e dittature militari. Quell’epoca remota ha lasciato comunque spazio a un panorama artistico molto diversificato. Ma il rock è un po’ scomparso dal radar. Cheyi Okoaye è il fondatore di Audioinferno.com, uno dei principali siti dedicati al rock e al metal africano: «La Nigeria – scrive sul suo blog – non è mai riuscita a trovare una vera identità musicale. È passata dal jazz all’afro-beat, dalla disco al reggae, fino all’hip hop e al rap. C’è una scena rock e metal con ottime band come 1 Last Autograph, Clay, Threadstone, Nathmac, Stage One, Plus234, The Clones, Rock Engrafted, ma manca un vero pubblico. Ci sono ancora molti pregiudizi. Si marchia un genere come demoniaco senza neppure ascoltarlo. E si pensa che tutto il rock sia la stessa cosa».

Madagascar

Anche in Madgascar il metal è donna. La formazione di punta della scena è quella dei Sasamaso, formazione speed trash guidata dalla vocalist Rasàh. Cantano in lingua malgascia e provengono dalla capitale Antananarivo. «C’è una ridottissima scena metal – dice il bassista del gruppo Rado -. E sulle radio non viene quasi mai trasmesso. Il nostro obiettivo è quello di far conoscere questa musica a tutto il paese». Tra i loro discepoli i Behind The Mask, gruppo hardcore-crossover originario della città di Toamasina.

Mozambico

La felice realtà del metal del Mozambico si è già guadagnata un documentario, Terra pesada della filmmaker americana Leslie Bornstein che segue la vita di alcuni giovani impegnati nell’acerba, ma vivacissima scena musicale della capitale Maputo. Come in Angola, anche in questo caso il rock è sorto dalle ceneri di una estenuante guerra civile conclusasi all’inizio degli anni Novanta. È nato un movimento giovanile che ha più entusiasmo che mezzi, ma che ormai raccoglie decine di gruppi che amano i volumi alti e i suoni estremi, preferendo il death metal a forme più melodiche. «Sono rimasta impressionata da come i ragazzi del Mozambico sappiano essere pieni di risorse – ha spiegato Bornstein -, da come prendano sul serio la loro musica, da come sappiano suonare più strumenti. Sono inesauribili, informati, padroneggiano la tecnologia, conoscono il software e l’hardware. Amano sperimentare e si costruiscono da soli computer e strumentazione».

Sud Africa

Essendo il più europeo dei paesi africani, il Sud Africa è quello che può vantare la più affermata scena rock del continente e anche la scena metal più autorevole e consolidata. Se il rock mainstream ha in Dave Matthews la star più conosciuta, i Seether sono riusciti, da Pretoria, a diventare un nome di primissimo piano nel panorama post-grunge internazionale. Ma anche l’underground è ricchissimo. Innumerevoli i protagonisti dell’heavy metal locale, alcuni dei quali di qualità assoluta: Infanteria, Thread of Omen, Spectral Realm, Zombies Ate My Girlfriend, Juggernaught. Gran parte di queste band sono composte da bianchi, ma anche i neri contribuiscono a rendere lo scenario più ricco e diversificato. I più autorevoli sono il quartetto metal hardcore Ree-Burth originari della township di Soweto. «Siamo ragazzi nati e cresciuti a Soweto – dicono – ma oggi suoniamo per ragazzi neri e ragazzi bianchi». Dal ghetto simbolo della lotta all’apartheid arriva anche il duo Martin Lord Incarnate, discepoli di band come Venom o Immortal. Il black metal non è mai stato così nero.

Zambia

Una delle culle del metal africano si può rintracciare in questo ex protettorato inglese. Negli anni Settanta, complice senza dubbio l’influenza anglosassone, il paese sviluppò un’autoctona scena che diverrà nota come Zamrock. Un po’ Hendrix, un po’ James Brown, un po’ atmosfere indigene. Alcune band svilupparono un sound aggressivo e originale e, per i tempi, totalmente avventuroso a queste latitudini. I nomi di questa scena sono Rikki Ililonga e Musi-O-Tunya, ritenuti i fondatori del movimento e band come Witch (il cantante era chiamato Jagari, l’africanizzazione di Jagger), The Peace, Amanaz. Ma il più noto è stato Paul Ngozi e la sua band Ngozi Family. Ascoltando oggi alcuni dei loro lavori come l’album 4500 Volts del 1977 si ha la strana impressione di essere catapultati in universo alternativo dove i Deep Purple o i Black Sabbath suonano i loro riff in una festa tribale africana.