Lunedì scorso, in sei, abbiamo condotto un esperimento antropologico sulla nostra pelle: trascorrere una giornata in macchina e vedere che effetto fa. Ognuno dei sei non guida quasi mai o mai, per settimane, mesi o nel mio caso molti anni. Tutti siamo cicloattivisti che dicono al resto del mondo quanto l’automobile sia una cosa brutta; però in fin dei conti non ne viviamo la grigia abitudine. Da qui la decisione di fare questo esperimento, nella piena coscienza che sarebbe stato doloroso.
L’occasione era data da una riunione a Bologna convocata per dare vita a un coordinamento informale dei vari attori della ciclabilità, con l’obiettivo di avere obiettivi condivisi e da portare avanti indipendentemente ma con il massimo dell’armonia.
Tutto il viaggio, durato 11 ore in totale, è stata una lunga sfilza di test di resistenza alla stranezza e all’assurdità di questo modo di muoversi, maggioritario quasi ovunque e soprattutto in Italia; un impegno a non cedere alla banalità, vorrei dire alla bruttezza, del sistema asfalto-auto, della costrizione all’interno di una cosa che si chiama abitacolo, termine che mi richiama il loculo, dietro a una vetrata che assomiglia a un grande schermo tv, vincolati a cinghie di contenzione. I tratti urbani di Roma e Bologna sono stati la parte peggiore solo perché conosciamo il modo di essere liberi in città; l’autostrada ha invece offerto altre occasioni di sconcerto.
Viene percepito ovunque il nervosismo e l’assenza di amichevolezza di tutti i presenti in strada. A Bologna abbiamo evitato due incidenti consecutivi per sorpassi azzardati intorno alla vettura che ci conteneva, non capendone dinamica e motivazione. La partenza da Roma non ha evidenziato aggressioni, ma l’immissione dal raccordo anulare alla bretella autostradale ci ha mostrato un Tir in sorpasso veloce a destra, primo di una serie di episodi analoghi. Tuttavia manteniamo una certa serenità per circa due ore.
I primi segni di cedimento appaiono durante la pausa in un autogrill: alcuni di noi vanno a visitarne l’interno e tornano con dei cibi racchiusi in plastiche, malgrado avessimo con noi pane pomodori olio sale e quant’altro: comportamento estraneo alle nostre abitudini; ci si interroga sul perché di questo cedimento consumeristico. Non vengono trovate risposte.

Segni di disagio vero appaiono quando chi aveva guidato per il primo tratto passa dietro e dopo poco annuncia l’intenzione di volersi iscrivere a una sezione romana del Pd, creando una bolla di silenzio all’interno dell’abitacolo. La successiva spiegazione di tale nonsenso è stata complessa e poco convincente.

Alla quinta ora di viaggio chi era alla guida ha cominciato a inveire contro la presenza di altri in strada: ritengo che sia un record di resistenza, visto che i normali lo fanno fin dall’uscita dal parcheggio; tuttavia mostra quanto sia pericoloso per la psiche l’utilizzo dell’automobile.

Dopo tre ore di riunione e una pausa rilassante alla velostazione Dynamo si riparte, con il timore di avere cedimenti psichici nelle successive 5 ore. Un timore che probabilmente ha innalzato la capacità di tenere a bada sentimenti negativi, che sono stati contenuti e non hanno raggiunto i livelli dell’andata.

La noia del percorso è stata vanificata dalla sbandata di un Tir, forse un colpo di sonno, che ci precedeva di poco: la paura ha immesso adrenalina che ha aiutato a continuare vigili il seguito del viaggio.
Tutti hanno accusato formicolii e stanchezza di membra, eppure l’attività fisica ha rasentato lo zero. Abbiamo concordato all’unanimità che la vita in automobile fa male. L’esperimento ha avuto dunque pieno successo.