Sarantis Thanopulos: «Caro Franco, la nostra conversazione mi ha fatto ricordare un mio sogno di parecchi anni fa. Guardavo il mio riflesso sul vetro di una porta, ma non vedevo bene i tratti del mio viso. Poi la mia immagine si definiva, ero io, seppure pallido. Al mio risveglio l’angoscia iniziale svanì gradualmente mentre mettevo a fuoco il contesto del mio sogno. La porta era quella di un balcone della mia casa d’infanzia. Mi ricordai di un episodio accaduto quando avevo nove anni. Mia madre, diventata molto credente dopo un’endometriosi emorragica, durata alcuni anni, mi aveva confidato in quel balcone il suo sogno che diventassi vescovo. Il che implicava, già lo sapevo, la castità. All’epoca ero ammiratore di Temistocle, il vincitore della battaglia navale di Salamina, e le risposi: “Diventerò ammiraglio”.

Durante la sua malattia, che le procurava di tanto in tanto pallore, avevo avuto paura che mia madre potesse morire. Porto il nome del suo idealizzato padre, morto precocemente. Mantenerlo in vita in forma vescovile era il destino che lei mi aveva, in parte, assegnato. Se mi fossi riflesso nella sua richiesta, sarei svanito come uomo capace di amare una donna e non la Madonna. Fare morire mia madre o “morire” io?
Ho resistito, ma il prendere cura del suo (mio) pallore non avrebbe nulla a che fare con il mio mestiere? Può l’analista prescindere dalla sua personale esperienza nella passione che mette nel suo lavoro? Ecco perché vorrei sapere di più sul putiferio che hai scatenato tra i nostri colleghi».

Franco Borgogno: «Per taluni avevo dimenticato la realtà psichica, colpevolizzavo i genitori, non consideravo la spiccata distruttività infantile; per altri davo finalmente la stura all’impossibile a dirsi. La mia intenzione era semplicemente affermare che il vero trauma era l’omissione di soccorso, un trauma oscurato per non sottoporre a critica l’atteggiamento dell’analista e alcune idee che ne stavano alla base.

Non volevo quindi né cassare la realtà psichica né accusare i genitori in quanto anch’essi a monte deprivati, ma come avevo combattuto il rivolgermi a Dio e alla Provvidenza Celeste in nome di un Padre e di una Madre reali stavo invitando a una psicoanalisi più giusta e libera al cui centro vi devono essere i bisogni-diritti del bambino e un adulto vivo e vitale che lotta con piacere per l’individuazione-autonomia dei più deboli che, anziché stufarlo, lo stimolano tanto da sentire che anche lui stando loro accanto apprende. Il piacere autentico di chi sta con te è difatti fondamentale al percepirsi conosciuti-riconosciuti e all’essere avviati all’esistenza con curiosità e gioia, ed è in questo senso che, come molti cuneesi, posso dirmi “partigiano”. Ho qui in mente Giorgio Bocca che ho incontrato a Courmayeur e Beillardey a metà Ottanta proprio quando ho reintrodotto gli spoilt children tra i miei colleghi, molti dei quali ahimè con il tempo si erano induriti e fatti recalcitranti, anche quelli che in gioventù avevano senza remore sfidato i codici autoritari e negazionisti del fascismo e del nazismo. Questi colleghi solo più avanti si opposero a chi li riteneva responsabili dei gravi traumi subiti durante la guerra e del loro essere finiti nei campi di concentramento. Dissero “basta” non solo all’orrore di sentirsi dire che l’istinto di morte li aveva condotti nelle situazioni in cui si erano trovati, ma anche all’ “antisentimentalismo” dei comunisti, presso cui al rientro in Italia avevano trovato rifugio».

Sarantis Thanopulos: «Hai associato l’idealizzazione della psicoanalisi a quella di un’ideologia. C’è stato, infatti, lo stesso investimento idealizzante dell’ortodossia, del “giusto” modo di pensare l’intero spazio della vita che vede nei sentimenti un limite. Per tanti l’antidoto è il conformismo: pensare come tutti, non distinguersi. Cadere dalla padella alla brace».