La Comune di Parigi nella persona del suo rappresentate alla istruzione pubblica, il pittore Gustave Courbet, il 16 aprile del 1871 attua la demolizione della colonna di Place Vendôme, eretta con il bronzo dei cannoni austriaci e sovrastata dalla figura di Napoleone Bonaparte, abbigliato come un imperatore romano.

La vicenda della Comune di Parigi andò a finire tragicamente: forse anche 30.000 fucilati in una mattanza di dimensioni mai viste prima. Courbet, dopo una breve detenzione, fu raggiunto da una condanna apparentemente più lieve ma altrettanto devastante, antesignana delle moderne cause per «danni» brandite dai potenti della terra: la riparazione dagli iperbolici costi della colonna Vendôme. Si rifugiò in Svizzera dove morirà senza mai più rientrare in Francia.

Oggi la colonna, rimessi insieme i cocci, è il fondale estetizzante per residenze di lusso e pubblicità di profumi per il grande pubblico. E forse nessuno nota più l’imbarazzante statua di Napoleone, ancora adesso figura chiave di ogni barzelletta sui pazzi megalomani, antesignano delle mascherate «imperiali» di altri megalomani a venire. Tra queste le italianissime e, altrettanto tragiche, parodie imperiali del ventennio fascista.

I monumenti vengono innalzati e vengono abbattuti, altrimenti le nostre piazze si presenterebbero inzeppate di oggetti, come il cimitero ebraico di Praga; e non c’è dubbio che la colonna Vendôme abbattuta è un’opera altrettanto significativa della colonna Vendôme in piedi. Se così non fosse, sarebbe semplicemente incomprensibile l’arco di Trionfo impacchettato da Christo; non si tratta solo di un imballaggio, almeno spero.

Sembra che innalzare e abbattere siano due facce della stessa pagina di storia, e che ci capita di stare – spesso incolpevoli o inconsapevoli – da un lato o dall’altro a seconda dei tempi.

Ma se tutto si riduce a semplice produzione di un significato attuale, si ha l’impressione che qualcosa si perda nel meccanicismo di questa teoria. Perché nell’idea della forma come semplice «rappresentazione di un contenuto» va perduto qualcosa che attiene alla forma stessa, e che la rende produttiva o improduttiva.

In questi giorni di abbattimenti di statue di personaggi orribili, qualcuno ha sentito il bisogno di stilare una graduatoria tra «opere architettoniche» che configurano uno spazio e «opere celebrative» che sarebbero, per così dire, «puntuali». Il monumento, opera celebrativa, rappresenta un contenuto propagandistico e se vogliamo rimuovere quel contenuto dobbiamo ovviamente rimuovere il monumento. Per le architetture invece lasciamo uno spazio di riflessione, quasi che l’architettura sia un contenitore meno definito e disponibile ad accettare nuovi contenuti. Della pittura, fastidiosamente bidimensionale, non parla nessuno. Quella sta chiusa in posti dove vanno in pochi, e spesso quelli che ci vanno guardano sempre le stesse cose.

Che l’architettura abbia una capacità straordinaria di metabolizzare le storie è indubbio. È un’esperienza comune passare momenti di piacere nel visitare musei allestiti in quelli che sono stati terribili penitenziari, mostre in caverne dove si viveva da trogloditi fino a pochi anni fa, nel passeggiare dentro fortezze teatro di violenze indicibili, o creare interi quartieri del divertimento in complessi industriali che hanno divorato le vite di milioni di persone. Si gusta il gelatino all’ombra di gazometri monumentali che avvelenavano l’aria con i fumi del coke.

 

Sembra proprio che nella vita degli spazi abitati dall’uomo ci sia sempre qualcosa in più di quanto previsto in origine, o di quanto determinato dalla simbologia più spiccia. Come se le forme generassero in continuazione il proprio significato. E ovviamente alcune forme sono molto produttive, altre anonime ma disponibili a piegarsi a nuovi usi, altre francamente improduttive e spente.

In un bello, e tormentato, articolo Alessandro Portelli si domandava com’è che a Roma c’è ancora un obelisco che celebra Mussolini, al Foro Italico, e un pavimento musivo pieno di inni al Duce mentre in Germania non ci sono monumenti a Hitler. È vero, ma è anche vero che le statue di Mussolini, in genere teste, «capoccioni», erano forse migliaia e non ne è restata quasi nessuna. Chissà che l’obelisco non sia sopravvissuto solo perché, per il Foro Italico, non ci si è decisi tra architettura e monumento; e in Italia l’indecisione è quasi sempre fatale per cui le cose restano come sono, magari in stato di abbandono. È in questo modo qualcosa sopravvive, non necessariamente qualcosa di edificante, e si reimmette in un circuito di significato.

C’è anche da dire che alcune delle più genuine opere, queste sicuramente di propaganda, del regime nazista sono state assunte senza la minima variante nel nostro modo di rappresentare. Opere effimere, ma non meno efficaci – anzi forse di più – come le tecniche scenografiche di Speer per le adunate naziste o quelle di ripresa di Leni Riefenstahl sono migrate verso Hollywood in un lampo.

Bisognerebbe accettare l’idea che la società è sempre un fenomeno più complesso dei regimi che la dominano, e che quello che avviene all’interno di una società spesso precede e sopravvive ai regimi. Le società umane sono come l’acqua descritta da Poe nel Gordon Pym, nell’avvicinamento al Polo sud, che agitata ci appare omogenea, acqua appunto, ma se si ha la pazienza di farla placare ci si accorge che è composta di vene di tanti colori, tra i quali si può insinuare la lama di un coltello.

L’esempio della «fine» del blocco comunista, e della furiosa e sistematica distruzione di quanto sembrava rappresentarlo, ancora sgomenta. Dopo aver passeggiato per orenello scoppiettante bric-à-brac berlinese del post comunismo, gli occhi si riposano guardando le Siedlung scampate alla distruzione solo perché edificate prima. E c’è un filo, un ragionamento, irriducibile a questo o quel regime, che connette le forme e il loro modo di rappresentare il mondo. Poi, certamente ci sono i compromessi degli uomini, e anche le loro miserie; ma questi sono ovunque.

In questi giorni ha riaperto la galleria Borghese e si può tornare a guardare da vicino il Ratto di Proserpina di Gian Lorenzo Bernini, con quella mano potente che affonda le carni della giovane, disperata e in lacrime. Che quella scultura rappresenti il preambolo di uno stupro violento è fuori dubbio, ma che si tratti solo di questo è – in tutta evidenza – improbabile. Si esce dalla villa perplessi e ci si guarda intorno, alla ricerca di segnali di mondi scomparsi ma che, inevitabilmente, fanno parte della nostra storia.

Sicuramente dovremo prestare più attenzione alla storia delle forme, e alla storia del loro contesto, e depotenziare sia la retorica dei monumenti sia quella, oggi dilagante, dei «capolavori» che tutto attualizza in una melma insapore ma pericolosa. In breve, addestrarci a discernere tra esperienza attuale e visione storica.