L’ambientazione berlinese e la fuga come motore narrativo autorizzano il rimando del personaggio di Katia, protagonista di Cose che si portano in viaggio della madrilena Aroa Moreno Durán, alla Rita Seidel del Cielo diviso di Christa Wolf: entrambe le donne scappano per amore dalla Repubblica Democratica Tedesca, ma l’esito di questi due precipitosi allontanamenti non è lo stesso. Katia resterà a Ovest e costruirà la sua vita lontano dalla famiglia, contrariamente a Rita, che delusa dalla Berlino capitalista, era tornata al di là del confine, pagandone le conseguenze. Il confronto evidenzia una caratteristica fondamentale dell’esordio di Aroa Moreno Durán: i personaggi del suo romanzo (il cui titolo suonava nell’originale La hija del comunista, traduzione di Roberta Bovaia, Guanda, pp. 192, € 16,00) agiscono in un non-luogo narrativo sullo sfondo della Berlino est tra gli anni Cinquanta e Settanta, spazio evocato in alcuni momenti precisi ma quasi subito ritirato dalla scena per lasciare posto a un Bildungsroman che potrebbe essere ambientato anche altrove, in altra epoca.

E perciò, l’esito finale della vicenda di Katia – la cui scelta in apparenza lineare e definitiva sembrava aver reciso ogni legame con la Storia – spiazza completamente il lettore quando, alla fin fine, riporterà proprio il contesto storico al centro del romanzo.

Moreno sceglie una lingua essenziale fatta di periodi brevi, e pur non rinunciando alla terza persona singolare, non si discosta mai dal punto di vista di Katia, così da mostrare al lettore soltanto ciò che lei vede e ricorda. I suoi genitori sono esuli spagnoli antifranchisti; dopo aver perso la Guerra civile e aver provato a restare in Spagna, sono fuggiti in Germania e sono stati accolti dal governo socialista. Dei loro trascorsi non parlano con i figli se non per accenni, nella speranza che Berlino possa offrire loro le opportunità che in patria non avrebbero avuto: un’infanzia serena in una società comunista. Katia, tuttavia, nell’illusione di poter dimenticare i palazzi grigi di Berlino est, i cesti di uova e frutta rubati oltre la Cortina di ferro e le parate in divisa, proietterà il destino di sradicamento dei suoi in un piano di fuga più subìto che voluto, alla fine del quale si ritroverà senza passato e priva di una famiglia. Ma lasciamo la parola all’autrice, che risponde via mail.

Il romanzo abbraccia un arco temporale di diversi decenni eppure contiene poco racconto. Procede per accenni, con brevi capitoli, sia nel raccontare la vita della protagonista sia nel descrivere il contesto storico, e sembra voler ridurre al minimo il numero di parole necessario all’avanzare della narrazione: come mai questa esigenza?
Non sapevo se queste cesure temporali così nette avrebbero funzionato, ma mi servivano, intanto, perché quando ricordiamo la nostra vita, essa ci appare in forma di scene sconnesse tra loro. Volevo riscattare dallo sfondo quei momenti della vita di Katia che avrebbero potuto avere un significato per l’intreccio, e che a volte, coincidevano con passaggi importanti del contesto storico. C’è una trama visibile, la vita della protagonista, e c’è una trama sotterranea, il mezzo secolo di storia contemporanea nel quale Berlino è diventato un epicentro interessante. Non volevo scrivere un romanzo storico, però intendevo assoggettare la storia minuscola alla grande Storia. E non avrei saputo farlo in altro modo.

Quindi, questo suo esordio usa una strategia narrativa che intende in qualche modo distanziarsi da quella del romanzo storico»?
Non ero cosciente di allontanarmene, piuttosto volevo che il mio personaggio fosse contagiato dalle circostanze storiche della Germania di quegli anni, lo pensavo come un simbolo del modo in cui la politica può arrivare ad avere un impatto profondo sulle vite private dei singoli. Mi interessano i romanzi dove il peso della Storia fa muovere i personaggi, conferendo loro una luce speciale, un tono inconfondibile, quei romanzi dove non c’è necessità di narrare gli eventi, che restano strutture invisibili.

Improvvisi sprazzi di «precisione» punteggiano la trama altrimenti molto scarna di dettagli. Ci sono alcune descrizioni, soprattutto la toponomastica di Berlino est, e alcune date esatte. Cosa le ha dettato questi particolari?
Mi affascinava vedere come avanzando nella scrittura, mentre includevo alcune parole di quella Berlino sovietica – il ballo Lipsi, la crema Florena che usa la madre del romanzo, o i nomi sovietici delle strade – all’improvviso la pagina scritta cambiava il suo colore. Dal grigio sovietico passava al grigio del dopoguerra. I dettagli che lei cita sono necessari, ma dovevo maneggiarli con cautela: non esibendo, per esempio, tutto quello che avevo imparato circa la Ddr.

Già da alcuni decenni, il romanzo spagnolo contemporaneo sembra alla ricerca di un nuovo modo di raccontare e riflettere sulla propria storia: gli esempi sono tanti, uno su tutti fa capo a Javier Cercas. Da cosa nasce secondo lei questa necessità?

A me pare che la finzione romanzesca non debba mai prendere il posto della storia politica, però può illuminare luoghi che sfortunatamente sono stati messi in ombra. La Spagna ha un debito con il suo passato recente che inizia a comprendere e cerca di illuminare svelando alcune verità, e cercando giustizia e riparazione. La letteratura ci può aiutare a comprendere come questo sia un cammino inevitabile.

Il romanzo contiene una tensione tra «microstoria» e affresco storico-generazionale: il colpo di scena con cui si chiude il libro fornisce una chiave di lettura inaspettata rispetto alla vicenda di Katia, la protagonista. Sarebbe stato possibile, per lei, svincolare la biografia del suo personaggio dal peso del contesto storico?
Il romanzo si intitola in spagnolo La hija del comunista perché il padre estende la sua ombra sulla figlia fino alla fine del libro, anche quando Katia decide del proprio destino. Credo che questo abbia a che vedere con la caduta di certe ideologie e l’abbandono politico di un grande trauma, di un’immane delusione. Senza dubbio, intendevo far riflettere sul fatto che il padre di Katia, in un certo senso, salva la figlia dalle sue proprie decisioni, e lei, a sua volta, salva suo padre, anche se soltanto emotivamente e nella propria memoria.