Pippo Delbono, uno degli artisti più importanti e innovativi della scena italiana, si era già misurato con l’opera lirica (un Don Giovanni in Polonia, Cavalleria rusticana al San Carlo di Napoli). Con curiosità e rispetto, e con un gran desiderio di riappropriazione di un patrimonio fondamentale della cultura italiana, quasi negletto e apparentemente ristretto ad una cerchia di amatori «nostalgici». Ora, all’Opera di Roma, fa un passo ulteriore. Riprendendo l’opera di Mascagni tratta dal racconto di Verga, e presentandola nella accoppiata classica con Pagliacci di Leoncavallo (entrambe opere «veriste», composte negli stessi anni, e di analoga breve durata, secondo la programmazione tradizionale), innesca un processo che potrebbe rivelarsi utile e interessante per ogni spettatore come lo è per l’artista chiamato a portarle in scena (ancora domani alle 16,30 al Teatro dell’Opera).
In questi due racconti musicali pieni di sentimenti esasperati e dalle conseguenze drammatiche senza possibilità di appello, Delbono ritrova quegli elementi vitali che come lui ogni essere umano si può trovare ad affrontare. Del resto qui risiede il loro successo centenario, procedendo su partiture che riempiono il cuore e danno qualche brivido. Il regista ha quasi «cercato”, e trovato, una strada di accesso alla fascinazione delle due opere. E come esse entrano nella sua biografia illuminandone forse momenti e oscurità, egli offre alla loro esecuzione e al loro ascolto elementi privatissimi eppure a tutti familiari.

Con delicatezza (che a tratti fa trasparire una sorta di pudore, pur nella sua determinazione) questo viene annunciato all’inizio delle due opere, nelle pause delle belle aperture musicali che Carlo Rizzi garantisce all’ascolto con una direzione d’orchestra autorevole quanto partecipe. Per Cavalleria è il dolore recente di una perdita familiare a farsi grimaldello per togliere ad Hanno ammazzato cumpari Turiddu la patina folklorica e cupissima dei delitti d’onore.

Nei Pagliacci, tra altri amori tragici e altro sangue, è la dimensione stessa antropologica di quel piccolo e sgangherato e polveroso circo di periferia a venire scrollata, mostrando, quasi fosse una decalcomania, quel «circo» buffo e ricchissimo di umanità e di talento che Delbono va raccogliendo negli anni nella sua compagnia. E tali appaiono, meravigliosi ed evocativi, i personaggi (veri, non interpretati) che fanno il suo teatro, richiesto in tutto il mondo. Diventano protagonisti, in controluce, l’insondabile sguardo di Bobò, la vitalità estetica di Gianluca, la lucidità di Nelson e di tutti gli altri.

Per loro il teatro si fa esorcismo e riscatto dal proprio dolore attraverso la finzione della recita, maschere di un circo salvifico che nei loro costumi da commedia dell’arte sono muto contrappeso alla tragedia che nell’opera si consuma. Tutto questo Delbono lo annuncia, con discrezione e pochi cenni di riferimento, così come all’ultimo calar del sipario si riserva la chiusa risolutiva «il teatro finisce qui». E questo basta a scatenare l’intemperanza verbale e fisica di qualche sparuto spettatore nostalgico ed esagitato, orfano dell’antica opposizione al nuovo che nella sala del Costanzi esercitava la defunta Pampanini. Il discorso di Delbono passa invece, e con grande calore, negli occhi e nel cuore del pubblico, che applaude commosso e convinto ad una bella esecuzione delle due opere, musicalmente ineccepibile, grazie alla bacchetta di Rizzi, al coro in grado di cantare facendo teatro, e alla bella compagnia di cantanti. Dove naturalmente primeggiano le donne: le tre «Parche» di Turiddu (Anita Rachvelishvili, Martina Belli e la mamma Lucia di Anna Malavasi), e nei Pagliacci la fantastica Carmela Remigio, desiderio universale e altrettanto universale rovina e vittima. La grande scatola rosseggiante e rugginosa inventata a Napoli per Cavalleria rusticana da Sergio Tramonti ingloba egregiamente anche Pagliacci, contenitore rovente e sbrecciato di sentimenti che fuggono via in cerca di respiro. E di distanza, per maturare la coscienza che a un’altra epoca, a una storia conclusa e circoscritta in questi monumenti al dolore, dovrebbe appartenere, non solo il «femminicidio» che ancora si perpetua, ma ogni pretesa animalesca del dominio sull’altro. Pippo Delbono intanto del suo «esorcismo» ci ha mostrato la strada, fascinosamente musicale.