Maher al Atar spunta all’improvviso tra le povere case della campagna di Atatra, nel silenzio totale di questa zona a nord di Gaza abbandonata dagli abitanti. Dietro di lui, poco alla volta, appaiono i suoi parenti, incuriositi dall’arrivo di una automobile carica di giornalisti stranieri. E’ un’area ad alto rischio, da dove parte il 25-30% dei razzi lanciati da Hamas verso Israele. E, si dice, da questa zona è decollato ieri il drone “A1B Ababil” abbattuto da un missile Patriot israeliano sopra Ashdod, ulteriore prova dell’accresciuta capacità strategica delle Brigate “Ezzedin al Qassam”, il braccio armato di Hamas. Da Atatra, osservando dall’alto la costa a nord di Gaza, si scorgono le industrie della città di Ashqelon. «Sabato notte siamo scappati, dicevano che Israele avrebbe prima bombardato e poi occupato Atatra, Beit Lahiya e Salatin – racconta Maher, facendoci entrare in casa – siamo andati alla scuola dell’Unrwa (Onu) a Gaza city. Abbiamo dormito lì due notti poi questa mattina siamo tornati per qualche ora a casa e per capire come sta la situazione in questa zona». Entrano nella stanza il fratello e sua moglie, poi un paio di ragazzi. «E’ qui che vogliamo stare ma abbiamo paura – aggiunge Maher – nel 2009 i soldati israeliani giunti nel villaggio (durante l’operazione “Piombo Fuso”) ne combinarono di tutti i colori. Arrestarono molte persone e fecero scendere in una buca alcuni dei miei vicini minacciandoli di ucciderli sul posto. Era una finta esecuzione ma li fecero quasi morire dalla paura. Stasera torneremo alla scuola dell’Unrwa, non vogliamo correre rischi». I presenti annuiscono, la memoria di quei giorni del gennaio 2009 è ancora viva tra le gente di Atatra e della vicina Beit Lahiya. Maher e la sua famiglia però sanno che scappare potrebbe voler dire la perdita della casa. Cinque anni fa gli sfollati al loro ritorno non riuscivano più nemmeno a ritrovare le loro abitazioni. I mezzi blindati israeliani non avevano certo avuto riguardi per gli edifici e le infrastrutture civili. Avevano cancellato le strade, lasciando un deserto colmo di macerie. La gente di Beit Lahiya ricostruì tutto. Ora si rischia di rivivere quell’incubo.

Nessuno in verità ha ancora capito quanto sia concreta l’intimazione lanciata domenica all’alba dai comandi militari israeliani. «Chiunque trascuri le istruzioni dell’esercito metterà la vita di se stesso e della sua famiglia a rischio. Attenzione. Abbandonate prima di mezzogiorno le case. L’operazione dell’esercito sarà breve», era scritto in un volantino lanciato da aerei su Beit Lahiya, Atatra e Salatin. Pare che all’aviazione sia stato affidato il compito di bombardare a tappeto la fascia di territorio a ridosso dei tre centri abitati, per distruggere, spiegano fonti israeliane, tunnel, presunti campi minati e depositi sotterranei di razzi, in anticipo sull’offensiva di terra minacciata da giorni da Israele. Le popolazioni si sono messe in marcia prima, allarmate dalle voci di un attacco imminente.

A migliaia sono andati verso le otto scuole riaperte dall’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi, dove non dovrebbero esserci bombardamenti, anche se nessuno dimentica che nel 2009 un istituto elementare delle Nazioni Unite a Jabaliya fu centrato da una cannonata israeliana che fece morti e feriti tra gli sfollati. Per questo tanti tra i 17 mila in fuga hanno preferito affollare la scuola Nasser di Gaza city, in apparenza meno esposta a rischi, ma dove devono adattarsi a stare ammassati nelle aule e nei corridoi, con pochi servizi igienici costruiti, peraltro, ad altezza di bambino. Docce non ce ne sono. Di letti, brande o materassi, nemmeno l’ombra. Non resta, allo stato attuale, che appoggiarsi ai piccoli banchi ammassati a ridosso di una parete. «I disagi sono tanti, così abbiamo deciso di tornare a casa, almeno durante le ore di luce, di notte quando potrebbero avanzare i soldati israeliani, andiamo alla scuola», ci dice Maher al Atar. Gli chiediamo se è vero che Hamas ha obbligato la gente di Atatra, Beit Lahiya e Salatin a restare a casa, nonostante l’intimazione giunta da Israele. «Abbiamo ascoltato alla radio – ci risponde – l’esortazione a non abbandonare le nostre case giunta dal ministero dell’interno (di Hamas), però qui non è venuto nessuno a dirci di non scappare o a minacciarci. Siamo andati via senza alcun ostacolo».

A favorire l’esodo a piedi, su un carro, su un asino, è stato anche il combattimento, il primo di terra tra membri di Hamas e soldati israeliani, avvenuto all’una di notte di sabato nella vicina spiaggia di Sudanya, quando un commando arrivato dall’altra parte del confine si è scontrato con uomini di Ezzedin al Qassam. Uno scontro a fuoco violento, con tre miliziani di Hamas uccisi e tre militari israeliani feriti. I lampi e le detonazioni erano percepibili anche a Beit Lahya e Atatra. Molti abitanti non ci hanno pensato due volte e sono andati via. Visitiamo l’area dove è avvenuto il combattimento, terminato secondo il portavoce militare israeliano con la distruzione di un deposito di razzi palestinesi. In giro però non scorgiamo i segni di questa battaglia violenta che ha fatto esclamare ai comandanti militari israeliani: «Missione Compiuta». Notiamo solo un largo e profondo cratere sulla strada principale che attraversa Sudanya, frutto con ogni probabilità dell’esplosione di una bomba sganciata da un F-16. Sulla destra c’è il mare azzurro di Gaza e sulla spiaggia le capanne per i bagnanti. Questa estate però difficilmente qualcuno avrà la possibilità di godersi il sole e la brezza da queste parti.

Gaza vive nell’attesa di nuove escalation. Nessuno si fa illusioni. La tregua è lontana. Hamas e Israele la vogliono solo alle loro condizioni. Gli islamisti puntano alla revoca completa del blocco di Gaza pur sapendo che non potranno ottenerla. Chiedono anche la liberazione dei detenuti politici mentre ieri Israele arrestava in Cisgiordania altri deputati di Hamas. Pesa più di tutto che giorni e giorni di bombardamenti israeliani hanno ucciso almeno 174 palestinesi e ferito altri 1.200 (in buona parte civili) senza peraltro avere fermato la potenza di fuoco dell’ala armata del movimento islamico. Anche il ministro centrista israeliano Yair Lapid, considerato un moderato, chiede che la guerra vada avanti fino a quando non sarà inferto un colpo durissimo ad Hamas. «Senza dubbio l’esercito ha colpito forte a Gaza ma non ha abbastanza il braccio armato (di Hamas). Dare altri pesanti colpi ad Hamas significa rafforzare la nostra posizione al tavolo del negoziato per il nuovo coprifuoco e il nostro potere di deterrenza», spiega da parte sua l’ex capo dell’intelligence militare Amos Yadlin, secondo il quale ammonterebbe a una cinquantina il numero delle vittime tra le fila del movimento islamista. In sostanza, aggiunge Yadlin, Hamas deve uscire con le ossa rotte dal confronto per poter accettare le condizioni di Israele per la tregua. Il quotidiano Yediot Ahronot ha scritto che Netanyahu vuole il disarmo della Striscia di Gaza per sospendere l’offensiva “Margine Protettivo”, sul modello dell’accordo internazionale per il disarmo chimico della Siria.

I raid aerei e gli attacchi dal mare su Gaza vanno avanti. Ieri, secondo i dati delle Nazioni Uniti, Israele ha sparato oltre 500 colpi contro vari obiettivi che hanno ucciso in 24 ore nove palestinesi. Una cinquantina di mezzi corazzati e pezzi di artiglieria sono in posizione lungo il confine. Da parte sua Hamas ha lanciato circa 200 razzi su varie città israeliane, uno dei quali ha ferito due sorelline di 11 e 13 anni a Lakya. L’allarme è scattato anche per la centrale atomica di Dimona. Infine razzi sono stati sparati anche dalla Siria verso il Golan occupato.