A distanza di quarant’anni anni dalla prima edizione presso Editori Riuniti, nel 1981, torna in libreria, in una traduzione (di Viola Marchi, revisionata da Laura Coltelli, appassionata divulgatrice di voci native american che firma anche la postfazione, introduzione di Alessandro Portelli, edizioni Ibis, pp. 331, € 18,00) uno dei titoli importanti della letteratura statunitense del dopoguerra: Cerimonia di Leslie Marmon Silko, uscito nel 1977.
L’autrice, di cui la Ibis ha pubblicato nel 2018 il memoir La vena di turchese, mette al centro di questa odissea della conoscenza, la figura di Tayo, un reduce dalla Seconda Guerra Mondiale, che torna dopo esperienze terribili. Si trova schiacciato in un inferno personale di allucinazioni, che lo riportano sempre a un episodio rivissuto senza tregua: la morte del cugino Rocky, di cui non ha saputo impedire l’uccisione da parte di un soldato nipponico.

Intorno, la vita del Pueblo Laguna, in cui gli uomini cercano disperatamente di imitare i modelli della vita dei bianchi e i reduci sono impegnati in una tremenda partita di autodistruzione, tra vanterie machiste, scontri e attacchi isterici, affidando all’alcool la tolleranza di uno stato di esclusione continuo. Al centro, il dilemma tra adesione al mondo della cultura dominante o fedeltà alla cultura dei padri e delle madri.

Sono le donne a farsi carico di salvare quello che è possibile di un mondo dilaniato dalla Storia. Tayo, in quanto mezzosangue, porta in sé una doppia esclusione. La madre aveva deciso di uscire dalla comunità, e di avere relazioni sessuali con bianchi e messicani.

In uno dei passi più crudi del libro, la scrittrice analizza perché, malgrado l’intervento di «Zia», impegnata a discriminare il nipote nato al di fuori della tribù, non le sia stato possibile riportare indietro la sorella. «Avrebbe potuto aver successo, solo se non si fosse vergognata tanto di sé. Vergogna per quello che le avevano insegnato a scuola sui deplorevoli costumi degli indiani, bianchi che avevano dedicato le loro vite intere a aiutare gli indiani».

Tayo, che finge di essere un italiano o un ispanico pur di anadare a letto con la sua bionda, oggetto del desiderio, reso avvicinabile dalla mobilitazione bellica e dall’uniforme dell’esercito, vive a metà tra due mondi, senza trovare pace. Soffre un terribile stress da trauma, cui la psicoanalisi non è riuscita a portare sollievo.

Toccherà a Betonie, un uomo-medicina Navajo, consegnare a Tayo gli strumenti tratti dal mito e dal racconto che gli consentiranno di ritrovare se stesso, e tornare alla kiva, il cuore del pueblo, dove gli anziani ratificano il suo ritorno agli spiriti degli animali protettori, portandolo fuori dal delirio.

La scrittura, che spesso lascia spazio al ritmo dei canti antichi, è intonata alla potenza salvifica del racconto, sotto l’incantesimo di «Ts’its’tsi’nako, Donna Pensiero, / seduta nella sua stanza/ e tutto ciò che pensa/ appare».