Sconfitto da Biden e avvolto nel proprio delirio: così si chiuderà il soggiorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Non sappiamo quali porte si apriranno per lui, dopo. Nei mesi del marasma post-elettorale, dicono alcuni, potrebbe essere fatto assurgere a icona dell’eroe sfortunato; pochi altri, invece, si spingono a ipotizzare che gli si chiudano le porte della casa repubblicana: che nel lavoro per sanificarne le stanze, la servitù chiuda fuori il padrone di casa. Già ora c’è chi fa finta di non conoscerlo. In ogni caso, il percorso della «transizione» del potere esecutivo, tra ora e fine gennaio, sarà accidentato. I problemi sono tanti anche in casa del vincitore, ma nel suo caso è per altre ragioni: perché i democratici non hanno preso (per ora) il controllo del Senato e perché sono assai grandi i problemi nel paese.

La partecipazione al voto ha superato il 65%. A memoria non era mai successo. Nei quattro anni di Trump, le mobilitazioni sociali si sono succedute, in gran parte direttamente contro di lui, su tutte le Women’s Marches. Nell’ultimo anno di passione, in cui pandemia, disoccupazione, violenza poliziesca si sono intrecciate, la più estesa e composita sollevazione sociale che si ricordi ha coinvolto milioni di persone. Il voto è stato uno degli esiti della chiamata a raccolta di questi mesi. La gente nelle strade doveva fare paura, secondo Trump, e invece la maggioranza ha votato contro di lui. Proprio contro Trump: infatti, i due partiti conservano la loro forza inalterata nei singoli stati. Camera e Senato non hanno subito travasi radicali, a conferma che metà della popolazione è repubblicana o comunque conservatrice (e vive più nelle zone rurali e nei suburbs, che nelle città di cortei e proteste).

Essendo stata così grande la partecipazione elettorale, sia Biden, sia Trump hanno avuto più voti di qualunque altro vincitore e sconfitto della storia. Alla fine, lo scarto è stato di oltre quattro milioni di voti popolari a favore di Biden. La vittoria stretta conferma che la frattura che divide la società statunitense è forse più profonda di quella che l’attraversava all’inizio del Novecento, quando al fondo della scala sociale stavano decine di milioni di afroamericani e di immigrati. Ora la disuguaglianza è altrettanto grande, ma la differenza è che gli afroamericani e gli ispanici (e i figli di questi ultimi) votano.

I sondaggi postelettorali sono in genere più attendibili di quelli di prima del voto, ed è di questi che, almeno provvisoriamente, bisogna fidarsi. Non si sa quanti neri e ispanici, un quarto della popolazione, abbiano votato. La maggioranza di loro si è espressa per Biden, le donne nere (91%) più degli uomini (80%); le donne ispaniche (70%) più degli uomini (61%). Né i neri, né i latinos hanno «abbandonato Biden»; le percentuali sono quelle di quattro anni fa. Per Biden anche «tutte le altre razze» (60%). E la disuguaglianza razziale insieme con gestione ed effetti sociali della pandemia sono stati decisivi nel motivare il voto a favore di Biden; mentre tra i votanti per Trump ha prevalso il buon andamento dell’economia pre-virus (con il Covid-19 visto come accidente in cui l’amministrazione non ha avuto responsabilità). I giovani, tutti, hanno votato più per Biden che per Trump.

A conferma che la divisione sociale è di casta e di classe, sta anche il fatto che il mondo del lavoro ha votato in maggioranza per Biden, ma con alcune differenze tra chi ha un posto a tempo pieno (50% per Trump, 48 per Biden) e chi no, vale a dire soprattutto i lavoratori delle minoranze e nei servizi poveri: 41% per Trump, 58% per Biden. Lo stesso dato è (grossolanamente) confermato dalla distribuzione del voto in rapporto al reddito: al disotto dei 50.000 dollari il 57% ha votato per Biden, al di sopra dei 100.000 ha votato per Trump al 54%. Ma quello che da noi è definito «ceto medio riflessivo», o «colto», se bianco ha distribuito equamente il voto tra i due candidati, ma se «non bianco» ha votato per Biden per più del 70%.

Il Blue Wall, il «muro blu» che Biden voleva innalzare riconquistando gli stati dell’antica industrializzazione – Pennsylvania, Michigan, Wisconsin – è risultato un muretto, che però è bastato per fermare Trump. Gli scarti con cui è stato sconfitto sono analoghi a quelli con cui era stata sconfitta Hillary Clinton. Sono sufficienti, tuttavia, per ridare a ciò che resta della vecchia classe operaia quel tanto di onore anche sul piano elettorale che analisti frettolosi le avevano tolto nel 2016, scrivendo che «la classe operaia non c’è più» e che gli operai «sono per Trump».

Il successo di Biden non è stato «a valanga». È sufficiente a scongiurare per il momento alcuni grandi pericoli: sul piano istituzionale, il nuovo successo di un candidato sconfitto sul piano dei voti popolari; sul terreno socio-politico e ideologico, la permanenza alla Casa bianca dell’individuo che più di ogni altro ha sollecitato e tratto vantaggio dall’appoggio di gruppi della destra estrema, suprematista, razzista e largamente maschilista; ha negato la necessità di affrontare i rischi del mutamento climatico e della protezione ambientale; ha praticato l’offesa sistematica nei confronti di tutte le componenti sociali – donne, ispanici, neri; media; avversari politici – di cui avvertiva l’ostilità o anche solo la diversità di opinione; la falsificazione della realtà a proprio uso e consumo. L’elenco potrebbe essere lungo. Ma basta, per accontentarsi di come è finita.