Sono uno che somiglia, mi si potrebbe prendere per un altro, parecchi altri, chiunque». A dichiarare timidamente la propria ordinarietà è un uomo, apprendiamo, che trascorre la propria esistenza portando una sedia rovesciata sulla testa. È uno scherzo? E poi per quale ragione ci si dovrebbe infliggere una tale scomodità? Tutte domande legittime eppure sbagliate dinanzi allo scenario eccentrico da cui prende avvio Au Plafond, romanzo di Éric Chevillard pubblicato in Francia nel 1997 e solo da pochi giorni approdato in Italia con il titolo fedele Sul soffitto (Del Vecchio, pp. 144, euro 14, tradotto e curato splendidamente da Gianmaria Finardi). Scommettere su un autore complesso come Éric Chevillard, mai tradotto prima nonostante il successo, significa far circolare una scrittura originale e di rilievo nella scena letteraria francese contemporanea. Considerato come l’erede di Alfred Jarry, Chevillard ne è più propriamente il figlio irriverente. Per Les Éditions de Minuit ha già all’attivo numerosi romanzi, oltre a scrivere sul supplemento letterario di Le monde e curare il blog L’Autofictif, dove deposita tre aforismi al giorno.
La storia è quella di un rovesciamento, sia fisico che simbolico, giacché a un certo punto quel bislacco figuro che gira con una sedia sulla testa decide, insieme ad alcuni suoi amici, di capovolgersi e di andare a vivere sul soffitto di una camera.

Nessuna levitazione, nessun incantesimo, semplicemente così: con i piedi sul soffitto. È stanco della realtà ma non cerca riparo, si badi bene, per riflettere filosoficamente sullo spazio di una ipotetica rêverie. Si trasferisce in un territorio inesplorato e alla rovescia. La lettura dell’operazione di Chevillard scompagina però le dimensioni spazio-temporali in cambio di una vista che superi l’approccio fenomenologico, ciò che per Gaston Bachelard costituiva l’ossatura de La poétique de l’espace, per aprirsi a ulteriori riferimenti teorici. Insomma, se la realtà così com’è non funziona, il soggetto non solo divorzia dalla propria stessa vita, come già ammoniva Camus, ma fa in modo che l’assurdo sia capace di mandare in cortocircuito qualunque forma e misura.

Il protagonista di Sul soffitto racconta la sua sorte, la prossemica con cui sceglie di osservare il mondo e le cose, le relazioni un po’ meno perché – con la questione della sedia prima e del soffitto poi – ha purtroppo difficoltà nella continuità degli scambi. Siccome da piccolo amava smodatamente rannicchiarsi, un medico cerca di raddrizzarlo proponendogli di tenere una sedia sulla testa. Ciò gli consentirà di curare la propria stortura. La decisione successiva è tuttavia quella che conta, quando cioè contravviene al senso comune che, arrivato al risultato di stare dritto, avrebbe imposto di trasformare la funzione della sedia da strumento di correzione posturale a oggetto su cui normalmente sedersi. È allora che si accorge che da quella sedia sulla testa non intende più separarsi. La sedia quindi, simbolo di oppressione infantile, si converte in sovrastruttura concettuale e materiale che egli manipola, tiene con sé, rivendicandone la proprietà e la libertà di azione.

Casa capovolta
Guardato con perplessità e scherno, per strada e al lavoro, egli comprende tuttavia di essere diventato un soggetto sotto osservazione: «Non chiedo altro che di dissolvermi, ma me lo impediscono. Poi mi indicano con il dito, guardatelo, ancora uno di quei poveracci capaci di tutto pur di attirare l’attenzione. Ecco cosa sento dire. Sappiatelo dunque, ne ricavo più umiliazione che gloria». Esistono altri suoi simili che hanno preso la stessa decisione ma solo in rari casi avviene un incontro fra loro.

Vero è che chi vive nello stesso luogo del protagonista, una baracca di un cantiere in disuso nella periferia parigina e in cui, tempo prima, si stavano avviando i lavori per una biblioteca, fornisce la rappresentazione di un margine anarchico ben più diffuso di un probabile delirio privato. In questo luogo dimenticato infatti ci sono altri e altre che non conoscono imposizioni, dal mercato come dalla logica, e conducono vite dissidenti, – potremmo aggiungere da personaggi letterari – e che hanno in mente imprese desuete di sovvertimento della realtà. In seguito allo sgombero che la polizia stabilisce di predisporre una mattina qualunque, le casette in cui dimora la piccola comunità vengono rase al suolo.

Gli spazi occupati e di invenzione, come nelle migliori delle tradizioni, vengono spazzati via per il ripristino di un non ben precisato ordine urbano e sociale. Nel romanzo, il passaggio dello sgombero è veloce ma fulminante non solo perché ha tangenze con il presente ma perché è l’intenzione premeditata di interrompere un lavoro che dura da tempo. In questo caso quello della rimpagliatrice Stempf che, mentre prepara la tela con cui ripara le sedie della comunità, racconta l’ennesima storia a voce alta. Sono fiabe in cui alla grammatica della fantasia si affianca la consapevolezza che le cose e i luoghi devono essere riempiti di memorie. E che la capacità di delocalizzarne le radici spesso è nelle mani di donne che ingegnano i propri corpi per opporsi alla violenza di lingue tristi e desolanti. Il piccolo gruppo chiede allora ospitalità a Méline, fidanzata del protagonista e l’unica che ha prestato attenzione al proposito del suo amato. Il suo appartamento è grande e spazioso e la sua camera potrebbe accogliere tutti i clandestini.

Prima uno e poi l’altro, si capovolgono tutti – tranne Méline che invece continua a vivere sul suolo, altrettanto calpestabile – per andare a stare sul soffitto, ci camminano sopra e cominciano a guardare le cose da un’altra prospettiva. Lassù ci sarà finalmente uno spazio per la quiete? Salvi dagli occhi inquisitori di chi vorrebbe escluderli e punirli per la propria difformità? «Sul soffitto, avevamo le mani libere, eravamo un po’ alle strette probabilmente, ma almeno potevamo fare qualche passo senza urtarci. Superficie bianca, immacolata come la neve nella sua nuvola, e priva della minima asperità, senza buchi né gibbosità, perfettamente piatta». Lo spazio liscio – di chiara allusione deleuziana – tocca qui l’essere imprendibili, fuori portata. Si ridisegnano scenari, si sceglie un movimento ascensionale che se ne infischi della gravità e della forza centrifuga e che reinventi un’altra pesantezza dei corpi. Che si sobbarchi di mostrare come tutto, infine, sia plausibile se proposto dalla letteratura e dalle sue metafore viventi e quindi politiche. Il cielo della camera scelto dal gruppo di amici non ricorda infatti scenari metafisici bensì di rifiuto, paradossali, in una parola «patafisici» – come descritti da Jarry.

Se Chevillard si diverte sommamente a portare l’assurdo al limite linguistico e concettuale, è proprio la patafisica, «scienza delle soluzioni immaginarie», a governare il resto. Le sue uniche leggi sono quelle dell’eccezione, dove tutto è fuori misura e dove la rivolta è impossibile solo quando non si riesce a pensare. E a nominare, anche nella sua impraticabilità. Almeno così vuole farci intendere Éric Chevillard.