Utilità e razionalità ma anche legittimità e, soprattutto, necessità sono termini che si accompagnano alla storia del campi di concentramento, così come allo sterminio di massa. Alla logica concentrazionaria, infatti, si lega non un difetto di norme bensì una loro produzione nell’ottica dell’«eccezione». Laddove è condizione di eccezione quella in cui vige un diritto che si presenta come «rivoluzionario», ossia capace di dare delle risposte innovative, dirette, immediate e quindi rassicuranti, a domande impellenti, inderogabili che altrimenti rischierebbero di rimanere inevase, lasciate a sé, senza una contropartita adeguata.

LO STATO DI ECCEZIONE, più volte richiamato nel Novecento, è quello in cui l’area della indeterminatezza, il senso dell’insicurezza, il timore di una minaccia incombente, si risolvono nel reclamo collettivo, rivolto alla politica, di una condizione supplementare di protezione. La quale trascina con se stessa l’identificazione di qualcosa e di qualcuno da interdire, da espellere dall’ambito delle relazioni sociali. Quindi da circoscrivere, da isolare, eventualmente da annientare. Il campo di concentramento, in quanto istituzione totale, ne deriva come una sorta di necessaria conseguenza. Si presenta come un ovvio completamento della trasformazione in atto, poiché imprigionando quei soggetti che sono identificati e stigmatizzati, di volta in volta, come minaccia nei confronti di un ordine costituito, diventa l’istituzione che, distruggendo le minoranze, garantisce la continuità della maggioranza.
Nel campo sono imprigionati quanti – individui o gruppi – vengono considerati figure «dubbie». Tali non perché abbiano necessariamente fatto qualcosa ma in quanto sospettati, per il fatto stesso di esistere, di potere alterare gli equilibri, presenti e a venire, della società, intesa come corpo biologico compatto e organico. La loro colpevolezza, in questo caso, sta in un’esistenza che diventa di per sé stessa indice di una identità criminale. Trattamento preventivo (come se si trattasse di una misura di igiene e profilassi pubblica), reclusione extragiudiziaria, misure straordinarie di prigionia, invenzione di una legalità «creativa» sottratta alla sfera del diritto ordinario, segretezza ma anche classificazione e divisione della popolazione tra gruppi pericolosi e modelli ideali – aderenti a un’unica, possibile tipologia di normalità, quest’ultima imposta ossessivamente come esclusivo criterio di riferimento – sono cose che si tengono insieme, alimentandosi e rafforzandosi vicendevolmente.

SI CONFERMA COSÌ il dato per cui nella politica contemporanea chi domina lo spazio dell’altrui incertezza esercita un potere tendenzialmente insindacabile, poiché assume le vesti di colui che rassicura, dà protezione, lenisce le paure, dispensa un orizzonte di futuro. Alla questione dei campi si ricollega, in immediato riflesso, il tema dell’eliminazione fisica degli indesiderati, pochi o molti che siano.

L’ELEMENTO fondamentale, in questo caso è dato dal nesso, indissolubile nell’età della «nazionalizzazione delle masse», tra politiche di Stato, consenso generalizzato e bisogno di rassicurazione. Se il moderno Stato turco nasce disintegrando la comunità armena, così la società internazionale nell’età della globalizzazione, nel mentre erode le frontiere, costruisce nuovi muri e luoghi di detenzione extra-giudiziaria, sospendendo i diritti elementari e rinnovando l’apolidia come condizione permanente di una parte dell’umanità. Per l’appunto, quella che viene dichiarata in eccesso.
Tra esilio sistematico, imprigionamento senza diritti e morte in massa c’è quindi un nesso molto forte, che non si esaurisce nel passato. Detto per inciso: non si tratta di stabilire improbabili equivalenze tra ciò che è stato ed il presente, pretendendo che quel che oggi accade sia la ripetizione pedissequa di quanto è già avvenuto. Semmai si tratta di ragionare su come certi aspetti dei trascorsi si ripresentino all’interno di società di massa, dove gli imperativi alla soggettività, alla valorizzazione delle individualità coesistono con il rimando all’uniformazione, all’omogeneizzazione più spinta, alla visione dell’alterità in quanto alterazione e, quindi, come potenziale minaccia. Alla quale contrapporre la «sicurezza» che deriverebbe della protezione di uno Stato che si assume il diritto assoluto e primitivo di determinare chi può integrarsi e chi, invece, merita di essere espulso dal consesso civile. E qui torna un’altra questione di fondo, quella del destino delle «non persone». Le quali sono tali perché prive di diritti, primo tra tutti quello di vedersi riconosciuta una terra di appartenenza.

LA VICENDA DELL’ESCLUSIONE sociale, delle persecuzioni e, infine, dello sterminio dell’ebraismo europeo diventa allora paradigmatica poiché raccoglie in sé tutti questi fenomeni, articolandoli in una successione tanto brutale ed efferata quanto consequenziale. Ripercorrerla, pertanto, è utile proprio perché ci permette di leggere, in controluce, le dinamiche che, sia pure in forme differenti o discontinue, si sono ripetute in altri tempi.
C’è un ulteriore nesso da mettere in evidenza, ed è quello che istituisce il trinomio tra fughe, o spostamenti forzati di popolazioni, migrazioni di massa e definizione dei confini all’interno del moderno sistema degli Stati nazionali, quello che va determinandosi tra il XVIII e il XX secolo, a fronte della crisi e poi della scomparsa degli Imperi multinazionali.
Se la storia è attraversata, a volte quasi lacerata, dalle grandi migrazioni, non di meno il circuito degli Stati nazionali novecenteschi, soprattutto con la fine della Prima guerra mondiale e l’assestamento dei processi coloniali, sempre più spesso si definisce in contrapposizione alla persistenza di un grande numero di non aventi patria.

NON È UN FENOMENO collaterale, quest’ultimo, perché chi è incluso – il «cittadino», nell’accezione giuridica e politica novecentesca che si dà al termine – viene identificato in base al suo reciproco inverso, lo straniero. È straniero è colui che, attraversando i confini, ne minaccia la loro persistenza. Così facendo, pregiudica, per il fatto stesso di esistere, la coesione e la pace sociale. Il fantasma dell’invasione prende in tale modo corpo. Dà sostanza alle politiche di difesa, ovvero alla necessità di dotarsi di strumenti non ordinari, non abituali, come risposta al pericolo che è insito in ciò che è estraneo.
L’ebreo è lo straniero per eccellenza, non solo perché porta con sé un’alterità secolare ma anche una minaccia di alterazione nei confronti del corpo sociale. Un ulteriore elemento da richiamare è quello che impone di pensare criticamente allo stato di cose e di relazioni che da due secoli è conosciuto come «nazione». In questo caso soprattutto nei termini che rinviano ad un corpo collettivo fragile, dai tratti sfuggenti, nel quale si rispecchiano anche le paure di quanti ne sono parte.

LA NAZIONE, per continuare ad esistere, in un mondo di stranieri potenzialmente pericolosi, deve liberarsi di tutti gli elementi perturbanti. In un’opera di purificazione permanente, senza la quale rischia di perdersi. Nazione e confine interagiscono ossessivamente, come dimensione materiale (la limitazione giuridica del territorio sul quale si esercita la giurisdizione della legge) e simbolica (lo spazio mentale nel quale ci si pensa omologhi, ovvero uguali se non identici). Di qui al discorso sulla purezza etno-razziale, quest’ultima intesa come mezzo per gerarchizzare la comunità nazionale, il passo può rivelarsi molto breve. Coesione e progresso sociale diventano così sinonimo di evoluzione tramite selezione.

NELL’ETÀ CONTEMPORANEA, all’interno di questa triste filosofia della storia e delle relazioni umane, la perversa saldatura tra campi e omicidi di massa è quindi istituita dal problema per eccellenza in un mondo fatto di Stati e abitato da nazioni, ossia la presenza di profughi che diventano apolidi. I campi di annientamento, come istituzioni peculiari della modernità, vanno quindi collocati in questa dimensione logica e cronologica. Non sono una patologia della modernità politica ma una sua possibile e plausibile evoluzione dal momento che essa dichiara l’esistenza di condizioni di eccezionalità, per le quali occorre porre rimedio adottando misure non abituali, ovvero creando un «diritto» esclusivo che deroga dai diritti umani.