Vitalina Varela è una donna, una vedova, un mistero. La incontriamo mentre scende dall’areo che la porta troppo tardi da Capoverde in Portogallo, coi piedi scalzi tocca la terra mentre un coro di donne anch’esse capoverdiane, la veste del sottoproletariato di servitù e pulizie, le dice che non c’è posto per lei lì, che è tutto finito ormai. Il marito Joaquim è morto, non è arrivata in tempo nemmeno per il funerale, non lo ha visto nella bara, di lui conserva un ricordo lontano: se ne era andato, fuggito dal Paese, da lei, dalla promessa di un amore lasciandosi alle spalle la casa incompiuta per finire in quel ghetto, tra quattro mura che come afferma il suo sguardo severo sono sghembe, con le porte basse su cui lei sbatte la testa, tra miseria e squallore.

MIGRANTE come gli altri uomini suoi amici ubriachi, tossici, marginali, qualcuno si è spaccato la schiena facendo il muratore nei cantieri, altri hanno rubato, spacciato, sono finiti in galera, e anche Joaquim. Era questa la sua vita? Era questo che le nascondeva del suo esilio di migrante inventando altre realtà? E quella donna fotografata tra le mura dove sta lei adesso era il suo nuovo amore, la compagna con cui lui l’aveva dimenticata?

Si chiamava pure lei Vitalina, qualcosa di più che una coincidenza. Mentre nel giorno senza sole che si leva su quelle baracche Vitalina Varela prova a ritrovare i frammenti di un altrove al di là dell’Oceano contro una vita, la sua, che non si è mossa mai, Pedro Costa per il suo nuovo film nel concorso principale di Locarno ci porta ancora una volta fra le storie e nei luoghi che da anni abitano il suo cinema, la comunità capoverdiana a Lisbona che film dopo film è divenuta poetica, immagine, forma e narrazione. Eccoli dunque in questo che come il precedente Cavalo Dinheiro – 2014, premio per la miglior regia sempre al festival di Locarno – è un film di fantasmi sin dalle prime sequenze: la camminata di dolore e di lutto del piccolo gruppo di uomini che avanza nella notte senza luce verso un cimitero, poi tra i vicoli stretti della favela, un altro altrove senza tempo al di fuori del quale non usciremo mai.

VENTURA, che nel precedente Cavalo Dinheiro cercava di far tacere le ossessioni del passato, il tremore fisico di una vita nella paura stavolta appare come un prete senza più chiesa, senza più diritto di dire messa nonostante Vitalina nella sua casa di dio deserta continui a chiedergli una preghiera. Anche lei l’avevamo già incontrata in Cavalo Dinheiro tra le stanze dell’ospedale dove si aggirava Ventura inseguendo le visioni della sua esistenza, i rimpianti che per la donna erano stati l’abbandono del suo uomo, la lettera mai arrivata di un invito, il peso del silenzio…

È dunque un «sequel» Vitalina Varela? Non proprio, piuttosto un controcampo che guarda «dall’altra parte», nel vissuto cioè di chi è rimasto finora fuori dal quadro, di chi ha incarnato per il migrante il Paese, il rifugio emozionale di una certezza, di una culla a cui rivolgersi nella nuova vita senza ritorno. E soprattutto si ribalta il punto di vista, stavolta femminile, quello della protagonista nei cui occhi le contraddizioni e i disagi della vita in Portogallo – lei che nemmeno parla il portoghese – si oppongono alle promesse di una felicità insieme che il suo uomo ha rifiutato. Strano specchio tra colonizzati e colonizzatori, tra esilio e «paese natale», tra nostalgia e lucidità, tra peccato e perdono, il senso di colpa di fronte all’integrità di Vitalina – o di una donna, perché il femminile nella testa del maschio continua a essere il principio d’ordine della propria esistenza?

PRIMA delle singole storie però Pedro Costa da No quarto da Vanda (2000) costruisce un teatro del mito, un paesaggio popolato da figure fantasmatiche che esprimono dalla parte di chi non ha avuto diritto di parola la storia portoghese, il passato coloniale, l’emarginazione presente e al tempo stesso sono puro cinema, spazio di una messinscena che sfida l’immagine e che cerca in sé – fino al rischio di rimanervi intrappolata – le ragioni del suo essere. Il regista si confronta col digitale – rispetto a Cavalo Dinheiro Vitalina Varela è più fluido e più compatto – trasformandolo in pittura, astrazione caravaggesca di una povertà, chiaroscuri come al lume di candela, una serie di quadri tra dettagli e primi piani che tessono con pazienza la trama delle emozioni: scarna, senza commenti né didascalismi in cui al centro c’è l’immagine e le sue possibilità. Una bellezza dell’universale che provoca però anche distanza, quasi che la «potenza» visiva racchiuda a tal punto i personaggi assorbendone il vissuto, la materia, a quella prossimità che fondava No quarto da Vanda – il corpo a corpo col sentimento e con l’altro.

ALL’OPPOSTO è il film di Hassen Ferhani (già autore del molto bello Dans ma tete un rond- point) – Cineasti del presente – 143 Rue du desert la cui protagonista, Malika, è una figura di donna senza rimpianti, ironica e spiazzante rispetto al proprio quotidiano fatto di fatica, incertezza e di una immensa solitudine. Malika vive nel Sahara algerino col suo gatto Mimì amatissimo, nel suo piccolo ristoro si fermano i viaggiatori per bere un thè, scambiare due chiacchiere, mangiare un uovo.

Tra le mura che sono lavoro e casa Ferhani pone la sua macchina da presa per questo strano on the road in cui tutto si muove rimanendo fermi. Il punto di osservazione è infatti l’interno del bar, dalla porta e dalle finestre come se fosse spiragli aperti sul mondo appare quanto accade fuori, il «falso movimento» di automobili, camion, persone, turisti, commercianti… Lei, Malika, consapevole dell’obiettivo vi si rivolge, parla al regista, scherza, inventa fantasie su di sé – a volte agghiaccianti, come la figlia morta uccisa dai terroristi. Scoppia a ridere subito dopo, smentisce: sarà vero che è falso?

Non lo sappiamo. Non ci sono «confessioni» in diretta, qualche accenno sulla scelta di vivere in mezzo al deserto – che rimandano a conflitti con la comunità di appartenenza, forse alla guerra civile degli anni Novanta in Algeria – sono ipocriti e ci fanno del male commenta Malika appena due religiosi escono dalla sua stazione di servizio. Giorno dopo giorno, incontro dopo incontro Ferhani crea un universo poetico, cinematografico, una realtà che è quella singolare di una persona divenuta meraviglioso personaggio e delle trasformazioni globali a cui nessun posto sulla terra è indenne: accanto al suo apriranno un altro ristoro, più bello, più ricco, sfavillante, Malika depressa pensa che sia ora di chiudere…

IL REGISTA ha scoperto Malika nei libri di un suo amico: «Era un personaggio che ritornava spesso, così gli ho chiesto di incontrarla». Con pazienza, una volta che ha deciso che il suo film si sarebbe svolto interamente nel suo ristoro ha cominciato a filmare ogni giorno. E nel confronto tra le parole della donna, sempre allegramente provocatorie anche nei momenti di malinconia, e quelle dei suoi clienti, alcuni anche amici di vecchia data, appare un’epifania di realtà, un mondo, una vita, una Storia.

Ferhani non ci offre appunto spiegazioni o flash back in un passato della donna, ascolta, filma, è vicino umanamente con dolcezza e rispetto affidando alla sua scelta formale, quell’inquadratura dall’interno verso il mondo e alla relazione con la sua protagonista la forza della sua messinscena. È qui che inventa uno spazio in cui l’immaginario – l’esotismo leggendario del deserto – si fa quotidiano, racconto del suo paese, l’Algeria, sentimento del contemporaneo.