Al sicuro tra le mura della Casa bianca e in quelle del palazzo presidenziale di Ankara, i due responsabili dell’apertura di un nuovo fronte di guerra in Siria hanno dedicato la giornata di ieri a distribuire al mondo pillole di boria e muscoli.

Mentre nel nord-est del paese proseguivano i combattimenti a terra, mentre cresceva il numero di sfollati dalle comunità del Rojava, il presidente statunitense Donald Trump mandava a dire a siriani e turchi di ammazzarsi pure tra di loro: «Non è un nostro problema», ha detto mentre incontrava il presidente italiano Mattarella, appena 48 ore dopo aver imposto sanzioni alla Turchia.

«Il Pkk è una minaccia terroristica per certi versi peggiore dell’Isis. E i curdi non sono angeli. Gli abbiamo dato un sacco di soldi per combattere con noi e sono stati bravi. Non tanto bravi quando non combattevano con noi», ha aggiunto cancellando in pochi attimi gli 11mila combattenti curdi, arabi, assiri, turkmeni morti nella lotta allo Stato Islamico e i migliaia di prigionieri stranieri dell’Isis detenuti a Rojava e che i rispettivi paesi hanno, per interesse, dimenticato.

Nelle stesse ore, nella capitale turca, il presidente Recep Tayyip Erdogan faceva fare un po’ di anticamera al vice-presidente statunitense Mike Pence e al segretario di Stato Mike Pompeo, arrivati per convincere l’alleato ad accettare il cessate il fuoco e a negoziare.

Alla fine Erdogan li farà passare (l’incontro è previsto oggi), probabilmente per ribadirgli quanto detto ieri a un vertice del suo partito, l’Akp: una tregua è possibile solo se «i terroristi (le forze curde) abbandoneranno le armi, distruggeranno le loro trappole e lasceranno la safe zone che abbiamo stabilito». Ovvero se gli permetteranno di creare quella zona cuscinetto su cui rimugina da anni, a metà tra un «magazzino» di rifugiati siriani e un simil-emirato sunnita, da tenere sotto l’ala.

Il gioco machista di ruolo in corso tra i due leader si consuma sulla pelle di un intero popolo che ieri è entrato nel suo ottavo giorno di operazione «Fonte di pace». Sul campo le varie forze prendono posizione con i primi reali scontri tra esercito siriano e milizie islamiste (opposizione a Damasco) al soldo turco: «L’esercito siriano è a sud ovest di Kobane – ci faceva sapere in mattinata il Rojava Information Center – Attendiamo l’ingresso in città in serata». Ingresso confermato ieri sera dal Ric e dalle foto di soldati a cavalcioni sui carri armati a sventolare la bandiera siriana: l’esercito governativo è entrato a Kobane.

«Ad Ain Issa, Tel Temer e fuori Manbij ci sono scontri tra le Sdf (Forze democratiche siriane), le milizie filo-turche e i soldati governativi – aggiunge il Ric – Il governo ha un ruolo attivo: da quando sono presenti aerei russi e siriani, l’aviazione turca non si è vista».

Colpi di mortaio e artiglieria pesante anche a Ras al-Ain (Sere Kaniye), con colonne di fumo visibili dalla parte turca della frontiera. Ma gli scontri peggiori hanno investito Ain Issa: qui, secondo l’agenzia curda Anha, le milizie filo-turche avrebbero dato alle fiamme il campo profughi dove sono detenuti miliziani dell’Isis, liberandone un numero non definito.

Nomi di città e di comunità che all’Europa dicono poco. Sono la prima linea del fuoco, quella che Erdogan ha bisogno di conquistare per radicare le proprie posizioni, sia militari che politiche. E sono, in alcuni casi, città-simbolo non solo dal punto di vista geografico: sono quelle che con la loro storia hanno plasmato il carattere sociale, economico, politico, di genere, dell’esperienza del confederalismo democratico.

L’eventuale caduta di Manbij e Kobane nelle mani di Erdogan e dei suoi pretoriani rafforzerebbe la narrazione turca del conflitto, non tanto fuori quanto all’interno della Turchia, dove crisi economica e avanzata delle opposizioni al voto amministrativo gli hanno suggerito il vecchio trucco della distrazione di massa.