Quando lo scorso anno l’attivista taiwanese Lee Ming-che è stato condannato dalle autorità cinesi a cinque anni di detenzione per «sovvertimento del potere dello Stato», a sostegno della sua colpevolezza l’accusa ha fatto riferimento a una serie di post pro-democrazia scritti mentre si trovava a Taiwan e pubblicati su Facebook, il social network americano inaccessibile nella mainland senza una vpn, strumento che camuffa l’indirizzo Ip sfuggendo alle maglie della censura.
Pochi mesi più tardi, nella provincia meridionale del Guangdong, il dissidente Zhang Guanghong veniva arrestato per aver condiviso commenti critici nei confronti del presidente cinese Xi Jinping in alcuni gruppi di discussione privati su WhatsApp, applicazione di messaggistica istantanea , ugualmente off limit nella Cina continentale.

Non capita di rado che le sentinelle di Pechino passino al setaccio la blogosfera cinese per rimuovere contenuti disdicevoli, messaggi violenti e manifestazioni di dissenso politico. È un processo cominciato in maniera sistematica nel 2011 con l’introduzione di alcune restrizioni sul Twitter locale, Sina Weibo, e sfociato nella formulazione di una controversa legge sulla cybersicurezza, che tra le altre cose obbliga cittadini e aziende straniere a usare server cinesi. Stando a quanto spiega un comunicato governativo, la cybersecurity law «non solo fornisce la tutela legale degli interessi delle masse nel cyberspazio, ma serve anche a proteggere efficacemente la sovranità e la sicurezza nazionale del cyberspazio».

Un concetto introdotto dallo stesso Xi nel 2014, all’indomani dello scandalo Snowden, quando la città di Wuzhen ospitò la prima edizione della World Internet Conference. In quell’occasione, davanti a una platea composta da oltre mille persone provenienti da più di 100 paesi e regioni, il leader cinese ha invocato «rispetto per i diritti di ogni nazione allo sviluppo, utilizzo e governance di Internet, oltre all’astensione dall’impiego di risorse e forze tecnologiche per violare la sovranità Internet di altri paesi». Che tradotto dal diplomatichese equivale a una richiesta di legittimazione sul proscenio internazionale delle pratiche censorie con cui Pechino imbriglia il dibattito in rete, prezioso termometro degli umori popolari, sì, ma anche insidiosa fonte di critiche e instabilità sociale.

Da allora, il concetto di cybersovranità si è cristallizzato in una definizione non ufficiale ma ampiamente condivisa sintetizzabile come «l’aspirazione dei governi a esercitare il proprio controllo su Internet all’interno dei loro confini, comprese le attività politiche, economiche, culturali e tecnologiche». O almeno così è stato fino all’arresto di Lee Ming-che e Zhang Guanghong.

Con l’espansione degli interessi cinesi all’estero, a Pechino non basta più poter esercitare la propria sorveglianza all’interno delle frontiere nazionali, che esse siano reali o virtuali. Nei primi sei mesi dell’anno le autorità cinesi hanno ordinato la rimozione di 2.290 contenuti dai servizi Google disponibili oltreconfine, tre volte le richieste inoltrate nell’ultima metà del 2016.

Proprio il colosso di Mountain View ha visto crescere le pressioni in concomitanza degli sforzi messi in atto dal governo cinese per il rimpatrio di Guo Wengui, tycoon convertito all’attivismo, che dal suo esilio americano ha accompagnato il countdown verso l’ultimo Congresso del partito con una serie di rivelazioni mai confermate sulla corruzione dell’establishment comunista. Il tutto principalmente attraverso Youtube – acquistato da Google nel 2006 – e Facebook. Secondo il New York Times, è proprio in seguito al pressing di Pechino che, nell’aprile 2017, la società di Mark Zuckerberg ha sospeso l’account dell’imprenditore per aver «pubblicato informazioni personali di terzi» in contravvenzione alle politiche aziendali. L’appetibilità del mercato cinese – che ormai conta oltre 800 milioni di utenti – rende le richieste cinesi sempre meno declinabili.

«Questi ultimi casi mostrano la china scivolosa percorsa dal concetto di sovranità cibernetica in Cina e la sua vicinanza ai sentimenti nazionalisti», spiega al manifesto Scott James Shackelford, direttore del Cybersecurity Program presso l’Università dell’Indiana. «Proprio come Mosca sta cercando di estendere la propria influenza in nome della protezione dell’etnia russa nelle nazioni confinanti, la Cina sembra tentare qualcosa di simile nel cyberspazio. Dato il relativo disimpegno degli Stati uniti dai forum dedicati alla governance di Internet, una tale concezione espansiva potrebbe prendere piede e avere un effetto agghiacciante sulla protezione dei diritti umani in tutto il mondo, sia online che offline».

La condanna di Lee Ming-costituisce un precedente anche più allarmante trattandosi di un cittadino taiwanese, nazionalità su cui Pechino pretende di esercitare la propria giurisdizione in virtù delle rivendicazioni territoriali sull’isola oltre lo Stretto.

L’estensione del controllo sul cyberspazio internazionale si inserisce in una più ampia campagna di sorveglianza nei confronti dei cittadini cinesi aldilà della Muraglia. In occasione dell’ultima Assemblea nazionale del popolo, il United Front Work Department si è visto potenziare le proprie mansioni con l’incarico specifico di «ampliare e unificare i legami con i cittadini ancora oltreconfine e quelli che ritornano in Cina».

Nel 2015, il rapimento di cinque librai di Hong Kong – di cui uno naturalizzato svedese e residente in Thailandia – ha messo in luce la discrezionalità con cui Pechino interpreta il concetto di sovranità. Adesso anche in rete.