Alla ripresa delle attività della moda, con le sfilate della primavera-estate 2016 che si sono già svolte a New York e stanno per arrivare sulle passerelle di Milano e di Parigi, una visione sensata sul significato della moda è arrivata da Agnès Varda, la regista mito del Cinema internazionale e madre inconsapevole della Nouvelle Vague, personaggio quanti altri mai estranea alla moda e ai suoi meccanismi. Presentando alla Mostra del Cinema di Venezia il suo cortometraggio Les 3 boutons, per la serie voluta da Miuccia Prada dei Miu Miu Women’s Tales, l’autrice di Senza tetto né legge ha dichiarato al nostro Alias che «la moda è una specie di utopia». E che ha accettato l’offerta di Prada per fare «un esperimento sulla moda, che è vita con le sue contraddizioni».

Nel film, Varda racconta una storia che è governata dal caso, ma al di là della trama, nella video intervista che accompagna il film spiega che ha voluto raccontare «una società ingiusta e squilibrata» attraverso la rappresentazione «che è il mio mestiere. La moda è rappresentazione, come il cinema. Cercarne il senso è fuorviante», spiega.
Il rapporto fra il caso, la rappresentazione e il senso dovrebbe essere la linea guida di ogni creatore di moda. E anche delle aziende che ne regolano i tempi, che ne vendono la creatività e che la propagandano per ottenerne profitti.

In passato, «caso e rappresentazione» hanno costruito la fama e la fortuna di molti stilisti che, con questi elementi, hanno scritto interi capitoli della storia della moda, come per dare vita a una rappresentazione di potere con Luigi XIV è nato in Francia il concetto di moda come la conosciamo.
Stupisce, allora, che oggi si sia spento il faro di questo rapporto e che al caso e alla rappresentazione si sia sostituita la profittabilità. Che a ricordarcelo sia una visionaria di 87 anni che non ha mai pensato alla moda ha dello stupefacente.

Eppure, proprio questa ripresa dell’autunno 2015 dell’attività del sistema moda pone ai protagonisti del settore delle domande che hanno bisogno di risposte molto urgenti.
La prima fra tutte è se l’espansione commerciale globale possa essere ancora un metodo di rappresentazione, visto che molti marchi che avevano giurato magnifiche sorti e progressive sui mercati asiatici ora soffrono pene infernali a causa delle riforme appena accennate dell’economia cinese. E il peggio deve ancora arrivare. La domanda seguente riguarda il sistema della concentrazione dei marchi in giganteschi «Gruppi del lusso», dove ormai l’economia di scala non si può più fare e la resa dei conti sui marchi in sofferenza ne sta per mettere in pericolo la stessa sopravvivenza.
Infine, ma non l’ultima, è la domanda che pretende la risposta della riorganizzazione delle presentazioni delle collezioni, non più sostenibile con la successione di quattro Fashion Week che ormai si svolgono a giochi commerciali già compiuti. Certo, affidarsi al caso sarebbe suicida, ma decidere che cosa debba rappresentare la moda oggi non è più rimandabile. Pena l’implosione e la perdita di un patrimonio sia creativo che di manodopera e di occupazione.