L’escalation di un rinnovato conflitto tra Stati uniti e governo siriano (e di conseguenza con Russia e Iran) è ormai realtà.

Dopo i 59 Tomahawk che il 6 aprile hanno colpito la base siriana di Sha’yrat (giustificati con un presunto attacco chimico governativo a Khan Sheikun) e dopo le accuse di forni crematori nella prigione di Saydnaya, ieri Washington ha proseguito nella sua attività incendiaria.

Un raid aereo ha centrato un convoglio di veicoli militari appartenenti a milizie sciite alleate di Damasco a 27 chilometri dal confine con la Giordania.

Forse combattenti di Hezbollah (ce ne sono almeno 3mila nella zona), forse miliziani iraniani o iracheni. Secondo un funzionario Usa anonimo, i veicoli sarebbero entrati in una «safe zone» (prevista dall’accordo di Astana da Russia, Turchia e Iran, ancora non definitivo e a cui ufficialmente gli Stati uniti non prendono parte, ma di cui – a quanto pare – si sentono guardiani), considerata tale per la presenza di forze di opposizione addestrate da giordani e britannici.

Il bombardamento è avvenuto infatti vicino al-Tanf e vicino una base militare gestita da Londra e Amman. Dunque, aggiunge la fonte Usa, il convoglio è stato percepito come una minaccia agli alleati statunitensi. Prima di attaccare, la coalizione ha informato Mosca e lanciato degli spari di avvertimento.

Il raid giunge mentre a Ginevra si tiene un nuovo round negoziale sponsorizzato dalle Nazioni Unite: ieri la delegazione del governo ha incontrato l’inviato Onu De Mistura. Si è parlato di una nuova costituzione con De Mistura che ha proposto la creazione di una commissione di attivisti della società civile e tecnici che aiuti a stilarla.

Nelle stesse ore lo Stato Islamico (nemico quasi dimenticato, se non fosse per la succosa preda Raqqa) ha ucciso 52 civili, tra cui 15 bambini, in due villaggi ad Hama: decapitati.