È editore e autore Yvan Alagbé, il fumettista franco beninese che ha firmato il manifesto del BilBolBul, il festival internazionale di fumetto che si è chiuso domenica scorsa a Bologna, dove sono allestite due belle mostre a lui dedicate. Figura centrale del fumetto d’autore e indipendente europeo, è autore di Negri gialli e altre creature immaginarie che arriva alle nostre mani grazie al festival e all’editore Canicola. Lo abbiamo intervistato durante la tappa pisana del tour, organizzata nella rassegna Fumetti&Popcorn.

Yvan, sei un autore molto ricettivo alle suggestioni culturali- penso al cinema e al teatro- ma riesci a farti attraversare dalle storie, per esempio riscrivendole. Penso al caso di «L’Evangile Doré de Jesus Triste», una versione dei del Vangelo con protagonista un Gesù femmina, o alla riscrittura del «Woyzeck» di Büchner in chiave africana. Eppure i tuoi lavori hanno una forte marca autoriale. Come convivono questi aspetti?
Quando ho iniziato a fare fumetti, era tutto molto stereotipato. Ci si aspettava che per vendere, gli autori dovessero seguire ciò che era già stato visto. Per noi era insopportabile: c’erano altre, infinite possibilità tematiche e grafiche e così abbiamo iniziato a guardare con interesse altre forme d’arte e a riversarle nel fumetto Il mio primo libro, per esempio, è stato pubblicato da un editore tradizionale, uno di quelli che pubblicano grandi nomi, per poi poter piazzare i libri delle pecore nere. Il risultato normalmente è che le star vendono milioni di copie, senza bisogno di grandi promozioni, e che per le pecore nere sono sufficienti un migliaio di copie, senza che nessuno muova un dito perché si arrivi per esempio a duemila. Mi sono reso conto che in questo meccanismo, all’editore non interessavano i libri. Per cui abbiamo iniziato a pubblicare per conto nostro gli autori che ci piacevano. Pensavamo proprio a una casa, fatta per far vivere insieme i nostri libri. Per me è fondamentale lavorare anche sui fumetti degli altri, perché mi permette di rimanere in contatto con le visioni altrui, anche perché quando disegno mi isolo completamente.

Questa permeabilità, la sensibilità a diversi linguaggi, al lavoro precedente e alla produzione di altri si ritrova anche nella tua opera: «Negri gialli» racchiude storie che possono essere lette come un unicum, ma riconducibili a generi diversi: il dramma amoroso, il reportage, il documentario e la commedia. Sono tutti aspetti del tuo pensiero di umanità?
Ovviamente sì. Spesso quando faccio un fumetto non so dove andrò a parare. Devo trovare la giusta forma per raccontare quello che voglio e non mi piace disegnare o trattare le storie tutte allo stesso modo. L’arte è un modo per rapportarsi agli altri, alle possibilità dell’umano, per organizzare e gestire ciò che c’è tra me e la realtà.

Le storie contenute in «Negri gialli» affrontano in qualche modo la percezione dell’africano e del non bianco- il ‘giallo’ del titolo- in Francia, che affonda le sue radici nel passato coloniale, per arrivare alla complessità del presente, alla difficoltà di integrazione dei sans papiers, alle proteste dei gilets noir. Ma le relazioni umane che questo contatto innesca non si esauriscono in questo libro. I protagonisti di «Negri gialli» finiscono infatti in un altro libro, del 2013, inedito, «L’ecole de la misère» , che ripercorre la loro storia a ritroso, generando una narrazione basata più sull’inconscio che sull’elemento di realtà. Ma qual è il tema davvero centrale della tua opera?
Direi che l’esposizione a Bologna, curata da Alessio Trabacchini e Elisabetta Mongardi, che si chiama Una storia dell’amore, lo esprime bene: l’amore è per me il tema centrale. L’amore tra Claire e Alain, lui africano sans papier, e lei parigina, o l’amore che manca a Mario, che pretende dagli altri con la promessa di fornirli i documenti. Ho attinto dalla mia esperienza e ho capito subito che potevo andare ancora più indietro, alla storia dei miei genitori. E non avevo, in nessuno dei due casi, l’idea di scrivere un libro sul problema dell’integrazione o sull’inclusione. A fianco del libro che citi, c’è anche il grande progetto al quale fa riferimento il titolo della mostra. Mi sono chiesto che cosa fosse l’amore davvero e perché nei secoli, avesse prodotto così tante creazioni artistiche. Ho cercato un libro universale sull’amore e non l’ho trovato. Ho deciso che lo avrei fatto io, ma ho voluto abbandonare la fiction e creare una specie di saggio grafico, di cui si possono vedere alcune tavole nella mostra. Sono illustrazioni che riproducono fotogrammi, sculture, riferimenti grafici.

Moltissime di queste immagini hanno a che fare con la rappresentazione del femminile e il titolo del libro sarà «L’apocalypse des oiseaux» . Un altro libro, realizzato con la partecipazione di artisti disabili, reinterpreta le tavole della Bibbia di Gustave Doré, raccontando però la storia di un Gesù donna. Perché?
Innanzitutto perché parlando dell’amore, ci si avvicina molto facilmente alla questione del genere e studiando la storia della religione, anche per il progetto dell’Evangile Doré de Jesus Triste, mi sono reso conto che progressivamente il femminile e le divinità femminee erano state rimosse dalla storia. Un libro chiave in questo senso è quello dell’archeologa Marija Gimbutas “Il linguaggio della dea”. Il titolo del progetto-che vorrei trasformare in una trilogia- ha il senso originario di “rivelazione” e gli uccelli hanno a che fare con il film di Hitchcock, dove la protagonista, attaccata dagli uccelli è anche la loro signora, colei che li attrae ma al tempo stesso ne è minacciata. Per quanto riguarda l’Evangile, la storia è lunga, ma a parte aver trovato una rappresentazione di Maria Maddalena nel deserto con il teschio, dipinta con la barba, mi ricordo che da piccolo ho sempre pensato che Gesù Cristo sembrasse una donna barbuta. Ma non si tratta di semplice parodia, piuttosto un modo per riflettere sull’amore, da nuovi punti di vista, attraverso un immaginario già esistente.