La valle del diavolo. Buon ultima arrivata al cospetto della feroce e implacabile mitologia hollywoodiana, Sarah (Alex Essoe) si dibatte senza tregua nella sua caparbia volontà dei vent’anni di riuscire a sfondare come attrice, durante il quotidiano deglutire la differente e ben più mediocre realtà fatta di sopravvivenza come cameriera in un diner e coabitazione assieme a personaggi attanagliati dalla medesima frustrazione. È l’incontro con una produzione specializzata in horror movies, la Astraeus Pictures e la successiva audizione risolta in un umiliante flop, che fanno sì che per la giovane arrivi il momento decisivo di confrontarsi davvero con la propria ambizione, costi quel che costi… La coppia di registi Dennis Widmyer e Kevin Kolsch con Starry Eyes (già noto in più di un festival di settore, tra States e Uk) difendono a loro modo la persistenza dei sogni di gloria rispetto allo scenario di una Los Angeles dark inesorabilmente infestata da incubi e mostri di varia morfologia, in un curioso blend tra lo Zulawski di Possession e l’Altman dei Protagonisti.

Voglio vivere così. Una perla del brutto a cui ripensare (così come consigliato da uno dei suoi pochi ma prestigiosi fans, ovvero Joe Dante): Katmandu (Les Chemins de Katmandou), di Andrè Cayatte (1969), un’innocente devianza figlia dei beati anni della contestazione il cui segreto fulcro di seduzione risiede tutto nell’eclettico cast: la storica e invidiabile coppia Jane Birkin e Serge Gainsbourg (autore delle musiche), Pascale Audret, Elsa Martinelli, Arlene Dahl, Sacha Pitoeff… Per il giovane Olivier (Renaud Verley), esauriti i fasti ideologici del Maggio francese, è tempo di rientrare nell’alveo familiare e tentare di salvare il salvabile del rapporto con i genitori, una madre – modella ormai avanti con gli anni – abbandonata a sè stessa e un padre fuggito in Oriente, ora raggiunto da Olivier, che in Nepal riconosce il luogo ideale dove confondersi nell’illusoria chimera de «il privato è politico», stretto in un affaire inestricabile di soldi, droga e amore libero. L’oratore da cineforum Cayatte – campione cel compromesso narrativo sui temi di morale e giustizia – qui in versione melò-turistica, raggiunge uno dei suoi risultati più bizzarri e kitsch, cercando di intercettare il pubblico di Love Story e in realtà anticipando futuri disastri in stile Velluto nero (Brunello Rondi, 1976).

Catene invisibili. Invitato al Film Festival di Manila del 1983, Werner Schroeter – tra gli autori del fu «Nuovo Cinema Tedesco» quello maggiormente legato all’underground e a un senso raggelato dell’esperienza visiva, complice l’ineffabile attrice Magdalena Montezuma – gira in loco Der Lachende Stern, un doc testimonianza del contrasto tra l’ostentazione ufficiale dell’occasione pubblica (alla quale non mancano di partecipare lo stesso Presidente Marcos e sua moglie Imelda) e il reale cataclisma sociale patito dalla popolazione filippina. Strutturato come un collage musicale, l’essai amplia la propria prospettiva di denuncia arrivando a comprendere la figura simbolica di Ronald Reagan e la parabola civile di Salvador Allende in Cile conclusasi tragicamente, mentre la first lady Imelda non si astiene dal cantare Feelings. Questa sera a Lisbona, ripresentato presso la Cinemateca Portuguesa (Rua Barata Salgueiro 39).