L’errore giudiziario può essere visto – al pari di ogni infortunio sul lavoro – come inevitabile fatalità, come calamità naturale. L’errore può nascere non solo da un fare (un ingiusto, un superficiale, un preordinato accertamento di responsabilità o di innocenza ), ma anche da un non fare: i magistrati sanno chi è il colpevole, ma sanno che è opportuno soprassedere nella formulazione dell’accusa, sanno che è preferibile cancellare le prove, indirizzare il processo su figure collaterali, insabbiare le indagini, frenare chi le conduce.
E’ storicamente provato che le conseguenze dolorose, scaturite dalle sentenze del giudice errante possono essere devastanti e irreparabili, non solo in presenza di tortura o di pena capitale, ma anche quando la pena inflitta a dispetto della verità non consenta il ripristino dello status quo ante. L’irreparabile avviene quando le sanzioni hanno fisicamente e socialmente cancellato la vittima o anche quando l’identità del reduce dal processo e dal carcere risulti cancellata o ricostruita dalle carte giudiziarie e dalla carta stampata : in quest’ultimo caso deve convivere con il sovrastante personaggio a lui estraneo, costruito – in buona o in mala fede – nel laboratorio gestito dalla polizia , dai magistrati dell’accusa e dai mass media ausiliari. Il sopravvissuto al processo resta così condannato a vivere con l’alter ego sovrapposto calzato sulla sua persona , sul suo modo di essere e di pensare.
La vittima può scoprire che sotto la toga niente verità o niente impegno diretto ad evitare che l’errore trasformi il romanzo poliziesco in dramma pirandelliano,in cui si è sviluppata una trama fatta di pulsioni, ambizioni, modi di sentire della cultura dei poteri forti.
Nel fenomeno delle sentenze ingannevoli con colpevoli/assolti e innocenti/condannati, pronunciate dai giudici maldestri o ingannati dalle apparenze o condizionati dalle suggestioni esterne all’aula di giustizia o guidati da impulsi di vendetta sociale, è intervenuta la letteratura. Così, in un ampio arco di romanzi, novelle,commedie, tragedie, incontriamo denunce, testimonianze, sentenze di condanna e di assoluzione su fatti e misfatti , realmente avvenuti o gemmati dalla fantasia.
Gli autori hanno esaminato e hanno criticato anche le opere creative di chi nell’indagare e nel giudicare ha fatto il salto dalla ricerca dell’accaduto all’intuizione del possibile, dal libero convincimento all’opportuno convincimento, dalla razionalità alla superstizione, dalla ragion pura alla ragion di Stato. E’ il magistrato che agisce da artista, perché il suo dire e il suo fare sono liberati dal reale, la fantasia ha preso il comando dell’agire processuale, ha fatto librare le persone vere dai fogli del processo e ne ha fatto entrare altre, che, in nome e per conto delle prime, subiscono la trama e il suo esito. Alla pronuncia della sentenza irrevocabile escono dal fascicolo processuale liberi o reclusi, a prescindere comunque da quanto accaduto e da quanto commesso.
In alcuni processi ci sono fatti che accadono per farsi narrare dalla letteratura, perché nascono dalla fantasia, dalle voci di dentro dell’inquirente e del giudice, funzionali a colmare per il principio dei vasi comunicanti, il vuoto di una verità che non è raggiungibile o non è desiderata. La fantasia del letterato, in caso di già avvenuta definizione di responsabilità o di innocenza, si è mostrata talvolta più verosimile della verità archiviata nella memoria ufficiale dello Stato. Rispetto alla verità ufficiale espressa dagli atti del processo, nella memoria popolare è entrata una verità diversa, in cui la ricostruzione letteraria può acquistare più coinvolgente capacità di convincimento. Il balzo di Giuseppe Pinelli, su spinta del malore attivo, è una verità che non ha trovato asilo nella ragione e nella credulità dell’uomo comune, specialmente di chi ha letto “Morte accidentale di un anarchico”, di Dario Fo. Grazie al testo dell’opera, il lettore si emancipa da una verità ufficiale che può sembrare aver oggettivamente chiesto asilo politico alla fantasia. Se è stato detto che Faulkner aveva realizzato l’intrusione della tragedia greca nel romanzo poliziesco, si potrebbe dire che Fo ha introdotto la tragedia greca nel romanzo poliziesco.
La letteratura investe criticamente non solo processi e sentenze platealmente erronei , ma anche un metodo di ponderazione della pena a copertura del non fare.
Leonardo Sciascia (in “Cronachette”, Adelphi) indirizza la nostra attenzione sulla condanna mite che diventa condanna sospetta. Nell’affresco di un grosso errore giudiziario del non fare (le omesse indagini sulla morte di Rosetta, una prostituta incappata,nell’agosto del 1913, in un letale scontro con la polizia) , si mostra perplesso sull’esito di un processo a carico del convivente della donna, che era stato condannato a «una così mite pena per un furto tanto clamoroso, da farci sospettare che nemmeno la sua reità era stata appieno provata… Ma una spiegazione la troviamo nei resoconti , sia pure sommari , del processo ed è la solita spiegazione di quelle miti sentenze che arrivano quasi ad assolvere gli imputati pur di non imputare i poliziotti che vendicativamente li hanno consegnati alla giustizia . Nel processo in questione, ad accusa della Rosetta e a convinzione dei giudici, una istruttoria si sarebbe dovuta aprire sul comportamento della polizia».
Problemi antichi della calamità naturale dell’errore giudiziario, su cui occorre tornare.