Film attualissimo e feroce, il nuovo Woody Allen, Blue Jasmine, è un’inaspettata non- commedia che nasconde dietro a una premessa più volte visitata dal cinema hollywoodiano classico (per esempio nel capolavoro di Preston Sturges, I dimenticati) uno dei personaggi più irredimibili che la satira alleniana abbia mai architettato. Nata Jeanette e cresciuta in una famiglia adottiva, Jasmine (Cate Blanchett) ha più o meno riconfigurato il suo opaco Dna middle class in quello sfavillante di una socialite di Park Avenue, grazie alle nozze con un Master of the universe di Wall Street (Alec Baldwyn).

Ricchissimo e sollecito nei suoi confronti, lui la tradisce regolarmente con l’amica, la trainer o la collega di turno. Lei ignora le tresche, o fa finta di non vedere nulla. La loro è un’esistenza beata tra appartamenti e monumentali ville agli Hamptons. Infatti, i veri problemi emergono solo quando, come Gordon Gekko e Bernie Madoff, il simpatico marito si rivela un truffatore di proporzioni colossali. Sola con il suo mega-set di Vuitton e a malapena i soldi per comprarsi un biglietto aereo (di prima classe naturalmente), Jasmine lascia l’Upper East Side alla volta di San Francisco dove sua sorella Ginger (adottiva anche lei, ma fisicamente meno idonea a un re-styling wasp – il film di Allen esibisce allegramente un radicale darwinismo) si mantiene lavorando alla cassa di un supermercato e, già lasciatasi alle spalle un matrimonio con il simpatico costruttore cafone Andrew Dice Clay, progetta di convivere con un altro coatto di nome Chili (Bobby Cannavale). Inorridita dai gusti inferiori della sorella, Jasmine la istiga a mirare «più in alto», e così la poveretta (grande, nel ruolo, l’attrice Sally Hawkins) si fa abbindolare in una storia con un gaudente signore sposato interpretato con sorriso da Lupo Ezechiele dallo straordinario comico televisivo Louis C.K.

Nel triangolo tra le sorelle e il fidanzato, Allen strizza l’occhio a Tennessee Williams. Non guasta che Cate Blanchett sia stata un’applauditissima Blanche Dubois in una produzione di Un tram chiamato desiderio messa in scena a Brooklyn qualche anno fa. Ma il rimando è puramente di superficie: il film è privo delle tensioni psicosessuali della piece di Williams e Jasmine non è mai tragico/patetica come Blanche. È però immutabile, come scolpita nel granito – incapace di rispondere al telefono dello studio medico dove l’assumono per pietà, di trattare umanamente i clienti, di divertirsi, di capire la gioia altrui e, alla fine, persino di farsi sposare da un giovane politico rampante opportunisticamente interessato al suo pedigree di moglie d’alto bordo. Il personaggio artificiale e vuoto che ha inventato per se stessa, le impedisce infatti di ri-farsi una vita diversa dai valori di quella da cui è stata espulsa.

Tennessee Williams morfa in Dostoevsky. E, dietro al volto aristocratico, gelidamente luminoso e stranito, di Blanchett (stragrande favorita agli Oscar di quest’anno) e alle dolci brezze della San Francisco Bay, emergono i neri cupissimi di Crimini e misfatti. Il ritorno in America di Woody Allen è segnato da un fortissimo scarto tonale rispetto alle più ariose, produzioni realizzate durante il gran tour europeo degli ultimi anni.

Ricchissimi e non possono coesistere secondo questa parabola made in Woody: siamo decisamente nella New York (e nel mondo) di Michael Bloomberg. Il racconto di due città di Bill De Blasio non è ancora nemmeno all’orizzonte. E in Blue Jasmine non c’è un’astronave scassata con cui i poveracci possono partire alla conquista di Elysium. Così Allen regala alla sua indomita «eroina» – perversamente artefice, si scoprirà, della sua stessa catastrofe- un finale implacabile, di tristezza terribile. Oltre il punto di non ritorno.