Ci sono forse forme di vita intelligente nello spazio? La risposta è no (e si direbbe ormai neanche sulla terra) , ne abbiamo la certezza dopo le esplorazioni del maggiore Roy McBride (Brad Pitt) in Ad Astra, di James Gray (Leone d’argento a Venezia nel 1996 per Litlle Odessa, tra gli altri svariati premi del suo palmares). Si tralascia nel titolo «Per aspera» anche se il suo significato si può evincere dall’avventura spaziale del protagonista, mai vista prima, il viaggio verso Nettuno. Il rilancio negli Usa dell’interesse per le missioni spaziali, abbandonato per tanti anni si fa sentire in questo film insieme all’inevitabile confronto provocato dal successo di un film come Gravity (2013) di Alfonso Cuarón, un capolavoro inarrivabile nel raccontare la solitudine dello spazio profondo.

MA L’OBIETTIVO di Ad Astra (in uscita nelle sale italiane il 26 settembre) vuole andare più oltre e come Icaro potrebbe bruciarsi le ali. Mentre Cuarón a parte le avanzatissime tecnologie metteva in scena non pochi spunti di ironia nei confronti delle costanti del cinema americano, James Gray ne evidenzia alcuni canoni eterni come il passaggio del testimone da una generazione all’altra di attori. Un passaggio scientificamente studiato nello star system (come Johnny Depp potrebbe essere l’erede di James Dean), qui si direbbe ufficialmente consolidato da Tommy Lee Jones a Brad Pitt, il primo già evanescente pronto a svanire, presenza prima solo evocata, poi riprodotta distorta su schermo, infine solo intravista da lontano e non più afferrabile. Di Brad Pitt invece si abbonda in primissimi piani, con casco e senza casco, sempre al centro della scena come eroe in missione top secret: una tempesta nucleare arriva dallo spazio, forse da un progetto giunto ai limiti del sistema solare, guidato dal padre di McBride, leggendario eroe di tutte le galassie, che ha raggiunto zone mai esplorate prima: considerato morto in servizio si scopre che è invece ancora in vita e il figlio è incaricato di raggiungerlo per bloccare il disastro che potrebbe distruggere la terra e i risultati spaziali raggiunti. Come uno cercherebbe il padre che si è inoltrato nella giungla lungo il fiume Congo, lui parte per Nettuno, via stazione lunare diventata un baraccone per turisti e poi prosegue Marte.

LO STESSO James Gray afferma di essersi ispirato per Ad Astra direttamente a Cuore di tenebra, anche se lui stesso aveva già realizzato nel 2017 Civiltà perduta,la ricerca di un esploratore scomparso nella giungla amazzonica. Innanzi tutto si delinea l’eroe McBride con tutte le caratteristiche che potrebbe avere un buon manager: battiti del cuore costanti, tenuta psicologica, nervi saldi, attenzione puntata sull’obiettivo principale. Quindi anche nel racconto si evocano confini lontani, la partenza dell’eroe che potrebbe non fare ritorno, anzi che non «vuole» fare ritorno, il viaggio spaziale come modo per fuggire esattamente come fecero anche Ulisse e i suoi in giro per il Mediterraneo per dieci anni e più.

ED ECCO emergere l’altra costante del cinema americano, il rapporto complesso tra padre e figlio, dal semplice abbandono ai riferimenti biblici, in crescendo man mano che la solitudine nello spazio si fa sentire – e fino a evocare un inedito cordone ombelicale che lega i due (e poi si spezza per sempre), un autentico cordone che lega i due fuori dalla navicella fino a spezzarsi. Il figlio continuerà da solo, ma quelle riprese di tunnel percorse a velocità supersonica non possono non aggiungere un elemento simbolico, quasi come a voler rientrare in una specie di «utero paterno». Ma la domanda chiave resta senza risposta: nel viaggio fino a Nettuno, nessuna traccia di alieni, ma per ogni evenienza si cita la formula di Drake, una formula matematica dell’astrofisico statunitense Frank Drake utilizzata fin dal ’61 per calcolare il numero di civiltà extraterrestri esistenti nelle galassie.