C’è un legame tra l’attentato all’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, il processo a Paul Rusesabagina, l’eroe del genocidio del 1994, reso celebre dal film Hotel Ruanda e il regime del presidente Paul Kagame? Secondo Timothy Longman, professore di scienze politiche presso l’Università di Boston, delegato dell’Osservatorio per i Diritti Umani in Ruanda per molti anni, nonché tra i massimi studiosi delle conseguenze del genocidio nello stato centrafricano, la risposta è sì. «Kagame è profondamente coinvolto negli eventi che hanno generato caos in Congo dalla guerra del 1996 a oggi».

LE FORZE DEMOCRATICHE per la Liberazione del Ruanda, una delle milizie hutu nata dai campi-profughi delle province nord-orientali congolesi dopo la fuga del ’94, in un primo momento sospettate di essere responsabili dell’attentato a Luca Attanasio, sono anche il frutto di questo contesto.

«Tuttavia – precisa Longman – bisogna partire dal fatto che il genocidio fu un evento orribile in Ruanda, almeno 800 mila persone di etnia tutsi furono massacrate e altre migliaia ferite gravemente, sfregiate o stuprate nel silenzio colpevole del resto del mondo. In quei mesi io ero fuori dal Paese, ma avevo lavorato in Ruanda dal 1990 al 1993 e conoscevo molto bene la sua realtà in quanto l’Osservatorio per i Diritti Umani mi aveva dato la possibilità di stringere molte relazioni e viaggiare da una provincia all’altra. Ho visto l’odio aumentare, ho assistito alle prime avvisaglie di quella tragedia inenarrabile che di lì a poco si sarebbe verificata e quando sono tornato, nel 1995, mi sono reso conto di aver perso molti amici, non solo tutsi, ma anche hutu moderati e contrari al genocidio».

«AD OGNI MODO I MASSACRI – continua – furono interrotti solo dall’avanzata delle truppe del Fronte Patriottico Ruandese, una milizia formata da rifugiati tutsi provenienti principalmente dall’Uganda, che aveva cacciato i genocidiari e circa un milione di hutu spaventati da possibili ripercussioni oltre i confini. Ed è qui che entra in scena Paul Kagame, figlio di rifugiati tutsi che aveva fondato il FPR e l’aveva guidato alla vittoria diventando prima vicepresidente del governo di Pasteur Bizimungu e poi, dal 2000, presidente, riconfermato in tutte le successive elezioni, anche con percentuali del 99%. Da subito, il governo del FPR ha considerato i rifugiati in territorio congolese come una minaccia e nel 1996 le truppe ruandesi hanno invaso il Congo con il pretesto di agire per la propria sicurezza nazionale. Il Burundi e l’Uganda si sono uniti all’esercito di Kigali e la sanguinosa guerra che ne è scaturita non si è conclusa fino alla capitolazione del Congo e alla destituzione del dittatore Mobutu».

 

Paul Kagame (foto Ap)

 

«Nel 2000 – prosegue lo studioso – ho condotto una ricerca nel Congo orientale e ho raccolto numerosi racconti di testimoni oculari dei massacri compiuti dal FPR e dall’esercito di cui questo era parte. Naturalmente, all’epoca Kagame ha negato che le truppe ruandesi fossero presenti, ma io le ho viste e ho intervistato testimoni oculari che le hanno viste. Negli anni successivi milizie o truppe regolari ruandesi sono tornate in Congo molte volte per assestare attacchi ai ribelli hutu o ai campi di rifugiati oltre la frontiera».

Longman sottolinea anche la disparità di dimensioni e risorse tra i due stati: da un lato il piccolo Ruanda, densamente popolato ma estremamente povero di risorse naturali; dall’altro il gigante nato intorno al fiume Zaire. con un sottosuolo ricchissimo di stagno, tungsteno, oro e diamanti, per citare solo alcune delle materie preziose estratte da questa terra martoriata.

«QUINDI – RIPRENDE LONGMAN – lo sfruttamento delle risorse del Congo è una parte molto significativa del recente sviluppo economico del Ruanda, anche se non è l’unica. È importante rendersi conto che la prosperità del governo di Kigali poggia in maniera indissolubile su due fattori determinanti: il senso di colpa dell’Occidente e la sua affidabilità. Una fetta molto consistente del bilancio del Ruanda, infatti, proviene dai finanziatori internazionali e gli ingenti investimenti che arrivano si basano in parte sulla narrazione che il FPR ha costruito a proposito di come ha salvato il Ruanda, perdonato i nemici, sostenuto i diritti umani e l’unità nazionale. C’è un’intera storiografia che preserva l’immagine del FPR dalle critiche. Del resto, Kagame e il suo governo sono riusciti a ridurre drasticamente la corruzione dell’amministrazione pubblica, hanno migliorato l’accesso all’istruzione aumentando di molto il tasso di alfabetizzazione e hanno implementato l’assistenza sanitaria, hanno avviato una serie di riforme volte a rafforzare la presenza femminile in politica arrivando ad avere il parlamento con il più alto numero di donne al mondo e, anche se non abbiamo dati certi, sembra siano riusciti a ridurre la povertà. Di conseguenza l’Occidente lo riconosce come un leader serio, sa che i soldi a lui destinati saranno spesi per i progetti concordati e non dispersi tra le maglie di un sistema corrotto, sa che il Paese è stabile (ma a quale prezzo?) e, in ultima analisi, appoggia Kagame. Lo considera un “dittatore buono”, come ho spesso letto, anche se io credo che l’aggettivo sia altamente inappropriato. L’immobilismo durante i mesi terribili del 1994 viene espiato versando denaro e chiudendo un occhio sui crimini di guerra che il FPR ha commesso contro gli Hutu durante l’avanzata verso Kigali e nel periodo successivo, sulle violazioni dei diritti umani in Congo e sulla repressione interna che dura da oltre due decadi».

PER CITARE SOLO POCHI CASI, Longman ci ricorda che alla vigilia delle ultime tre elezioni, tutti i candidati all’opposizione sono stati messi a tacere, in un modo o nell’altro. Nel 2002, ad esempio, l’ex-presidente Pasteur Bizimungu è stato processato e arrestato per un reato vagamente definito come «divisionismo» e nel 2010 alla leader del partito di opposizione, Victoire Ingabire, è toccata la stessa sorte. Entrambi i politici sono stati poi “omaggiati” della commutazione della pena da Kagame stesso.
È andata peggio all’imprenditrice Diane Rwigara, attivista per i diritti civili delle donne scampata al genocidio, figlia di un magnate del tabacco assassinato, che dopo aver annunciato di volersi candidare alle elezioni presidenziali è stata arrestata per corruzione e trattenuta in galera per un anno prima di essere assolta in appello. Una volta uscita, Rwigara ha dovuto prendere atto che i suoi beni e quelli della sua famiglia erano stati sequestrati e venduti all’asta dallo Stato. Ma, come tutti i regimi, non si sono risparmiati neanche i dissidenti interni, per i quali, anzi, il trattamento è spesso peggiore. Patrick Karageye, ex membro del FPR che aveva assunto posizioni fortemente critiche verso Kagame è stato prima costretto alla fuga e poi, dopo un periodo di latitanza, è stato assassinato da ignoti nel 2014 mentre si trovava in Sudafrica. Un suo collega, Kayumba Nyamwasa, stando alla Bbc, è scampato ad almeno due tentativi di omicidio.

ANCHE IL NEW YORK TIMES negli anni ha investigato su un politico dissidente ruandese che era stato trovato a galleggiare in un canale in Belgio, su un ex-ministro ucciso nella sua auto in Kenya e su due dissidenti avvertiti dalla polizia in Gran Bretagna per una «minaccia imminente» proveniente dal loro governo.

 

Una udienza del processo a Paul Rusesabagina (foto Ap)

 

«È per questo che un personaggio come Paul Rusesabagina è così pericoloso per Kagame – spiega Longman -. Alla fine del processo, Rusesabagina potrebbe anche essere assolto. E anche se fosse giudicato colpevole, probabilmente gli sarà comminata una pena non troppo severa, forse un breve periodo di detenzione. L’obiettivo del governo ruandese è un altro, ovvero far sì che gli oppositori si autocensurino e vuole farlo senza usare troppa forza, perché ciò minerebbe la sua immagine pubblica e avrebbe conseguenze negative sia dal punto di vista strategico sia economico. In altri termini, si prende di mira una personalità come Rusesabagina criticandolo e intimidendolo (ricordiamo che era dovuto scappare dal Belgio, dove era residente, dopo essere stato quasi spinto in un canale da un’auto che poi è fuggita e dopo aver subito diversi furti “insoliti” nella propria abitazione), si mette in campo un’operazione internazionale per tendergli una trappola e riportarlo nel Paese, dove tutto il mondo lo ritrova in manette accusato di terrorismo. Al contempo si mostra all’opinione pubblica che l’imputato è trattato bene, che subirà un processo giusto e si lascia intendere che in caso di colpevolezza potrebbe anche essere rilasciato, quale prova della magnanimità del capo».

«IL MESSAGGIO È CHIARO – conclude Longman – ed è rivolto a tutti quei ruandesi espatriati che sono critici nei confronti del regime: possiamo raggiungervi in qualsiasi momento, perciò attenti. Così nessuno di loro parla perché hanno paura. Rusesabagina era l’oppositore del governo che aveva il profilo più alto a livello internazionale, un eroe come molti l’hanno definito, il fatto che nemmeno lui sia al sicuro mette a tacere tutti gli altri».