Il mondo neoliberale è strutturalmente attraversato da emergenze, ma quella che stiamo vivendo ha qualcosa di diverso: non riguarda più gli altri, ma noi stessi; non più il fuori, ma l’immediata prossimità; non più una parte soltanto, ma l’intera società. Questa emergenza sanitaria, più ancora delle altre, fa allora emergere il rimosso in maniera particolarmente evidente. Non solo quindi quelle linee di privilegio, normalmente occultate dalla quotidianità neoliberale, tra chi oggi può permettersi un’astensione dal lavoro e chi invece non può – non perché medico, anestesista o farmacista, ma semplicemente in quanto lavoratore salariato o autonomo subordinato.

Ad emergere è anche la capacità analitica delle nostre categorie politiche: siamo costretti, ad esempio, a prendere atto di quanto la nostra vita dipenda dalla solidità, dalla capacità operativa e dalle decisioni politiche degli Stati di cui, lo si voglia o meno, si è sempre parte. Tanto le istituzioni internazionali – come l’Unione europea – quanto le regioni e le città appaiono sostanzialmente prive di capacità di indirizzo. In questi giorni appare evidente come lo Stato continui a rappresentare l’istituzione fondamentale attraverso la quale si organizzano e si articolano le nostre società. Infatti, se nell’epidemia ci scopriamo parte di uno stesso mondo globale, inevitabilmente interconnesso, allo stesso modo vediamo però come siano ancora gli Stati i soggetti che concretamente si fanno carico della responsabilità politica e della gestione dell’emergenza.

In questo senso, entrambe le ipotesi unilaterali e contrapposte di un isolazionismo nazionalista da un lato, e di un governo politico globale dall’altro, appaiono ridimensionate. Tutti gli interventi pubblici che sono oggi quanto mai urgenti vengono concordati, coordinati e realizzati dai singoli stati. Mai come ora appare evidente che solo se si riaffermerà la funzione politica dello stato e del pubblico in economia potranno essere messe in campo le misure necessarie ad affrontare le conseguenze sociali di questa crisi sanitaria. In questi giorni, infatti, vediamo ribaltarsi la subordinazione della politica alla tecnica. Se fino a qualche giorno fa ogni ipotesi di spesa in deficit era dichiarata tecnicamente impossibile, oggi appare improvvisamente plausibile ed auspicabile.

Ciò dimostra che l’inibizione dell’azione dello Stato attraverso l’evocazione di vincoli indisponibili alle richieste democratiche è sempre il frutto di una decisione politica, non di una necessità tecnica: è sempre stato possibile mettere in discussione i vincoli di bilancio e porre fine all’austerità. Evidentemente però, il degrado del welfare non era ritenuto un’emergenza. Mai come ora dobbiamo allora vedere ciò che siamo, capire ciò che vogliamo. Quando domani l’Unione Europea e le nostre classi dirigenti ci diranno che non possiamo sforare il deficit, che dobbiamo tagliare ancora la sanità, la scuola, che non ci sono i soldi per un Green New Deal che metta insieme piena occupazione e riconversione ecologica; quando i nazionalisti diranno che bisogna decidere se aiutare i pensionati e i lavoratori italiani o salvare chi annega nel Mediterraneo; quando insomma ci diranno che non sono possibili politiche pubbliche in economia perché non ci sono i soldi, allora ricordiamoci di quello che in questi giorni è stato possibile.

Perché domani, è bene saperlo, si porrà la questione su come risolvere e su chi far ricadere i costi della crisi sociale ed ecologica che ci attende; e se mancheranno i soggetti politici capaci di organizzare gli interessi delle maggioranze sociali, se queste cioè non saranno capaci di “farsi Stato”, allora saranno costrette a subire ancora, come in passato, le misure emergenziali che il governo neoliberale impone sistematicamente alla società.

Questa emergenza mostra ciò che non volevamo vedere: la miseria delle nostre analisi politiche, l’impostura quotidiana degli “esperti”, la conflittualità tutta apparente del dibattito politico, l’ignavia delle istituzioni, ma soprattutto la disarmante inadeguatezza delle nostre organizzazioni politiche. A preoccuparci allora, oltre ai sintomi clinici di questa epidemia, dovrebbero essere i «sintomi morbosi» del nostro mondo spaventato e incerto, in cui «il vecchio muore e il nuovo non può nascere».
O pensavamo davvero di essere in buona salute prima di questa emergenza?