Il violento sgombero degli eritrei in Piazza Indipendenza non mette in luce solo l’incapacità della giunta Raggi di affrontare una seria e organica politica di accoglienza dei rifugiati, anche quando questi sono donne e bambini residenti in città da molti anni.

Pone in risalto l’evidente rimozione del passato prossimo e meno prossimo che si riproduce ogni qualvolta ci si trova di fronte alle migrazioni dal Corno d’Africa.

ANCORA UNA VOLTA, si finisce per definire genericamente africani, quando non «invasori», profughi che provengono specificamente dalle ex colonie italiane. Una tale rimozione si produsse, ad esempio, anche in occasione del terribile naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013, quando a morire furono 360 eritrei su 368 vittime complessive. Da cosa scappavano gli eritrei morti a Lampedusa? Da cosa scappano gli eritrei di piazza Indipendenza? E perché, soprattutto in questi anni, gli eritrei scappano in massa?

SONO QUESTE LE DOMANDE che dovrebbero precedere ogni seria riflessione sulle politiche di accoglienza nei confronti di rifugiati che si sono lasciati alle spalle una delle dittature più feroci al mondo. Ma tali domande raramente trovano una risposta.

Gli eritrei (che continuano a essere da anni uno dei principali gruppi nazionali che raggiungono l’Italia dalla Libia) fuggono da un regime che ha privato il suo popolo di ogni libertà civile e politica, che ha imposto il servizio militare obbligatorio, e a tempo indeterminato, per ogni eritreo – uomo o donna che sia – che abbia compiuto 18 anni.

[do action=”citazione”]In pratica, il paese si è trasformato in una immensa caserma-prigione da cui (non solo) ragazzi e ragazze provano a fuggire. Sfidano la morte probabile durante il Grande Viaggio pur di lasciarsi alle spalle la certezza di una intera vita governata dal regime[/do]

CHI VIENE RIACCIUFFATO e rispedito indietro, in quanto disertore, finisce direttamente nei gulag nel deserto. Sono almeno diecimila i prigionieri politici vecchi e nuovi. Che tutto questo poi sia stato edificato da Isaias Afewerki, il leader di quello che fu il Fronte popolare per la liberazione dell’Eritrea, un’organizzazione laica e socialista, è doppiamente grave. Come raccontato da molti esuli, ex militanti del Fronte popolare, l’attuale caserma-prigione è stata generata dal fallimento di una lunga lotta di liberazione.

La frattura si è prodotta nella seconda metà degli anni novanta, allorquando gli oppressi di ieri, dopo aver ottenuto l’indipendenza, hanno adottato gli stessi metodi dei precedenti oppressori (quelli dell’occupazione etiopica e, per certi versi, ancor prima, quelli dell’occupazione italiana terminata nel 1943).

OGGI NEI GULAG ERITREI, come accertato da una Commissione d’inchiesta dell’Onu, si pratica sistematicamente la tortura. Qualche anno fa, mi è capitato di incontrare un rifugiato eritreo che era stato detenuto in un campo alle porte di Asmara e di ascoltare dalla sua viva voce il racconto delle violenze subite.

Le torture subite avevano nomi italiani: Ferro, Otto, Gesù Cristo. Improvvisamente ho capito che quei nomignoli si erano tramandati di dominazione in dominazione, dai carcerieri di ieri a quelli di oggi. Per giunta, ho appreso poco dopo, alcuni degli attuali campi di internamento sorgono esattamente laddove sorgevano i vecchi campi coloniali.

[do action=”citazione”]Così, quando si parla dell’esodo dal Corno d’Africa si produce una doppia rimozione, del presente e del passato. Tale doppia rimozione produce quel misto di indifferenza e fastidio che è alla base di uno sgombero privo di reali soluzioni alternative come quello di piazza Indipendenza.[/do]

Ieri pomeriggio, intorno alle 15,00, la piazza era presidiata dai blindati della polizia mentre dal palazzo ormai vuoto, che aveva ospitato negli ultimi anni gli eritrei, sventolava un tricolore lacero e stinto. Chissà da quanto stava lì, al primo piano del palazzo. Che tutto questo sia avvenuto a meno di cento metri da Piazza dei Cinquecento, il piazzale che fronteggia la stazione Termini, intitolato ai soldati italiani caduti nella battaglia di Dogali (in Eritrea, nel 1887), una delle pagine nere del nostro colonialismo, reinterpretata negli anni successivi come una sorta di italica Little Big Horn, è una coincidenza che ha il sapore del cortocircuito.