Nella lezione del 13 febbraio 1990 al Collège de France, Bourdieu afferma: «La genesi dello Stato (…) è inseparabile dalla costituzione di un monopolio dell’universale», il cui esito è un «effetto di dominazione». Lo Stato – tutt’altro che morto, come mostrato dal ruolo che gioca nell’attuale emergenza sanitaria – è insomma il risultato di processi storico-sociali di appropriazione della violenza materiale e simbolica che possono essere trasformati o rifiutati.

Secondo Clastres, antropologo eretico e selvaggio, la capacità di liberarsi dai germi da cui lo Stato può svilupparsi è ciò che caratterizza le società amerindiane, con le quali, negli anni ’60 e ’70, ha dialogato intensamente. Oggi è un altro antropologo, altrettanto eretico e selvaggio, Eduardo Viveiros de Castro, che in L’intempestivo, ancora. Pierre Clastres di fronte allo Stato (ombre corte, pp. 140, euro 13, traduzione di Andrea Manconi) ci invita a riprendere il dialogo con e di Clastres, dialogo interrotto dalla sua prematura scomparsa e dal mainstream antropologico che, quando non l’ha osteggiato, l’ha facilmente dimenticato. Invito pressante, come sottolinea Beneduce nella sapiente postfazione, vista l’immane devastazione che l’estrattivismo capitalista e il suo braccio armato, lo Stato bianco e razzista di Bolsonaro, stanno compiendo sui corpi, le cosmogonie, le forme di vita e i territori dei popoli amerindiani.

VIVEIROS DE CASTRO mostra che il contro del celebre concetto clastriano di «società-contro-lo-Stato» non indica una mancanza dovuta a una patologia della politica, ma la deliberata messa in atto di meccanismi immunitari che permettono a questi «collettivi» di fuggire, «al Grande Attrattore (…) dello Stato». Linea di fuga – dall’Uno che monopolizza e domina – resa possibile da «un duplice rapporto inibitorio: uno (…) intracomunitario, la chefferie senza potere, e l’altro (…) intercomunitario, il dispositivo centrifugo della guerra».

Per riprendere la terminologia di Deleuze e Guattari, il cui pensiero unisce lungo un’ininterrotta linea di ibridazione Clastres a Viveiros de Castro, alla surcodificazione molare dello Stato il «pensiero selvaggio», da intendersi come «potenza selvaggia di ogni pensiero» non addomesticato, oppone una società senza organi, costituita dall’insieme molecolare di «totalità sottrattiva» e «indivisione negativa», dalla macchina da guerra e dal posto vuoto assegnato al potere, che arrestano lo sviluppo di un «Tutto gerarchicamente superiore» e della gerarchizzazione interna.

LA SOCIETÀ SELVAGGIA, allora, è tutt’altro che edenica e chiusa, percorsa com’è dalla guerra e dalla «politica della molteplicità» di cui il personaggio fondamentale è «l’alleato politico», membrana osmotica tra «comunità di riferimento e (…) comunità nemiche». La società senza Stato è, quindi, «assenza di differenze “verticali”» e «proliferazione di divisioni “orizzontali”».

La moltiplicazione sottolineata da Clastres è ulteriormente moltiplicata dal prospettivismo di Viveiros de Castro che mostra come il socius amerindiano comprenda «altre specie», che la «non-umanità (è) una modulazione dell’umanità». Sulla «strada giusta» tracciata da Clastres, e come fanno da sempre i popoli amerindiani, il compito a cui siamo chiamati è quello di «politicizzare la natura», di riconoscere l’«agentività “soggettiva” dell’universo». «Intempestività» è proprio questo: parlare «non solo di un altro mondo, ma da un altro mondo». E «ancora» è l’inesauribile slancio di «moltiplicazione del molteplice».