L’intera storia russa si è costituita nei secoli attraverso il conflitto tra città e campagna, l’una da sempre colpevole di subalternità esistenziale alla ragione europea, l’altra custode di eredità spirituali e irrazionali, refrattarie a qualsiasi cambiamento; dopo la grande transizione degli anni Novanta, di quel sentimento escatologico oggi possiamo solo contemplare i resti. Sembra questa la lezione di Aleksej Ivanov, uno degli autori di punta del panorama letterario russo contemporaneo, che con I cinocefali (Voland, pp. 400, euro 20, traduzione di Anna Zafesova) quasi demistifica la danza di Nataša, la contessina che sulle note di una ballata popolare riconcilia le due anime della Grande Madre Russia in Guerra e Pace.

IL VILLAGGIO DI KALITINO in cui arrivano i tre giovani moscoviti, Kirill, Guger e Valerij, è privo di ogni suggestione romantica: cumuli di torba che bruciano, edifici semidiroccati, fossi ricoperti di erbacce. I ragazzi sono lì per rimuovere l’affresco di San Cristoforo dalla parete della chiesa centrale, ormai abbandonata. L’operazione è finanziata da un’organizzazione misteriosa che ha come compito principale quello di recuperare le opere d’arte per indagare successivamente la reazione popolare. Come reagisce una comunità una volta rimosso il suo simbolo identitario? La gente del posto può aspirare solo alla vodka, pensano loro, il lavoro è facile e pagato bene, roba di qualche giorno e si ritorna a Mosca. Neanche arrivano e l’atmosfera del paesino già pesa di antichi presagi: San Cristoforo, nel famoso affresco, è raffigurato con la testa di cane. Secondo una delle tante leggende, l’eremo di Kalitino fu fondato nel diciottesimo secolo da Cristoforo e il fratello Iafet. Cristoforo si innamorò di una monaca del luogo, atto blasfemo, e il Signore decise di condannarlo alla testa canina, come il santo raffigurato che viene proprio chiamato così: il Cinocefalo.

GLI ABITANTI DEL VILLAGGIO sembrano aver smarrito anche il minimo afflato spirituale per cui Cechov perdonava loro disonestà e violenza: non parlano, urlano; sono ubriachi per la maggior parte del giorno e vengono alle mani per un nonnulla. Personalità sfibrate, tronfi di imprese di cui non sono mai stati protagonisti, come Sanja Omskij, ex galeotto spezzato dagli acciacchi, a cui non rimane che scimmiottare gergo e pose da gangster. Ma è Kirill a stravolgere il destino universale della campagna russa, è a lui che Ivanov affida la rilettura storico religiosa degli eventi che fanno di Kalitino un luogo maledetto. Il cinocefalo dalla parete apre gli occhi, Kirill lo vede, ma è sicuramente un’impressione dovuta alla malia del villaggio.

Kirill non ha l’indolenza nerd di Guger, né l’impostazione intellettuale e distaccata di Valerij; dei tre è il personaggio più sensibile e attento all’ambiente in cui si muove. Di questa sensibilità si accorge Liza, anche lei ha una storia da raccontare sull’esistenza dei cinocefali, anche lei è insieme conferma e sconfessione archetipale della campagna russa: una moderna jurodivaja, stolta in Cristo, però priva di follia religiosa. Riserva poche parole a Kirill ma ne condivide pienamente la tensione, la voglia di scoprire chi sono e da dove vengono, se esistono davvero infine, i cinocefali.

GUARDIANI di un ex lager costruito proprio lì vicino, pronti a fare a pezzi chiunque provi a fuggire? Oppure figure antiche risalenti alle persecuzioni dei vecchi credenti durante lo scisma, di cui Kalitino fu rifugio in passato? Il romanzo di Ivanov si legge come una sceneggiatura ben congegnata con tutti i cliffhanger del caso, tasselli ricomposti a modino, cambi repentini di spazi e ambienti. L’autore scioglie l’impianto narrativo in chiave cinematografica, come hanno a dire i personaggi stessi, che non risparmiano rimandi a film e a scenari di genere. Ed è infatti sulla commistione di generi che lavora Ivanov, tra mystery classico e avventura, azzardi thriller e sfumature in giallo, aprendo persino a un finale dal gusto pop.

D’altronde l’elemento iconografico è il significante russo per eccellenza, già toccato nel cinema da tutt’altro pathos, con la creatività artistica al servizio dell’unità nazionale di tarkovskiana memoria in Andrej Rublëv, lì dove un gruppo di artigiani fonde un’enorme campana per riabilitare la chiesa di Vladimir saccheggiata dai tatari. Basterebbe inoltre la famosa citazione del più grande studioso russo di icone, Leonid Uspenskij, secondo cui «l’azione dell’icona davanti ai nostri occhi è al di fuori delle leggi dell’esistenza terrestre» per accordarci sulla forza culturale che il cinocefalo rappresenta nel romanzo, ora bestia mai sazia realmente incarnata in creatura assassina, ora figura mitica capace di influenzare decisioni e comportamenti di chi viene iniziato a riconoscerla per vie sensoriali prima che teoriche.

QUINDI LO SMALIZIATO cittadino Kirill irrompe nella percezione che la Russia ha di sé, ne rileva fratture e confini invalicabili. Scelta pericolosa, perché rimette in moto un altro tema della storia patria: il tradimento. Ivanov muove il protagonista tra gli schemi del puro intrattenimento ponendo in questione l’unità nazionale del Rublëv di cui sopra; di quella comunità capace di restituire all’oggetto artistico la tenacia di un paese cui non è rimasto niente. Solo i cinocefali.