Il profilo politico-culturale dell’eredità storica del Partito d’Azione, incarnato da figure come Ferruccio Parri, Piero Calamandrei, Duccio Galimberti, Giorgio Agosti, ha sempre rappresentato in Italia un elemento di rara quanto manifesta incompatibilità con gli esiti conclusivi della transizione avviatasi con la fine della guerra, la sconfitta del nazifascismo e la nascita della Repubblica democratica.
Per lungo tempo la riflessione pubblica sul lascito dell’esperienza del Partito d’Azione, ovvero della seconda forza politico-militare della Resistenza, è stata circoscritta al perimetro dell’immediato dopoguerra, coincidente invero con la parabola del PdA, e sintetizzata con l’immagine della «occasione mancata» di rinnovare nel profondo la struttura dello Stato e la società nonché per avviare un processo pedagogico di nazionalizzazione antifascista delle masse.

Tuttavia proprio il nesso conflittuale tra rottura e continuità, che segna la composizione di ogni «crisi organica», è rimasto al centro della vita pubblica del Paese anche nei decenni successivi riemergendo in modo visibile durante il cosiddetto «boom economico» degli anni ’50-’60 e poi nel corso della crisi 1989-1994 che ha ridefinito assetti nazionali ed internazionali.
Alla ricostruzione d’insieme di questi decisivi passaggi della storia d’Italia ed all’interpretazione-comparazione dei suoi termini fondamentali con l’eredità dell’azionismo è dedicata la 14° edizione «Cantieri dell’Azionismo», che prenderà avvio sotto la direzione di Giovanni De Luna il 10 aprile presso la Sala Atti parlamentari della Biblioteca del Senato, promossa dall’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea di Torino, dalla Fondazione Dalmazzo e dall’Archivio Storico del Senato.

Rileggere i nodi essenziali delle più importanti trasformazioni manifestatesi nel corso della vicenda dell’Italia repubblicana richiama la necessità di ragionare attorno alle «cesure», intese come linee di faglia dietro le quali è impossibile ritornare; alle «presenze», in termini di stratificazione delle eredità del passato come base del contemporaneo, ed ai «ritorni» intesi come riemersione di fenomeni figli della fase storica attuale.

Posto all’interno di una lettura di lunga durata, in dichiarata controtendenza rispetto alle odierne logiche «istantanee», il recupero dell’eredità scomoda del PdA può senz’altro divenire un utile strumento d’interpretazione degli anni 1958-1968 che cambiarono l’Italia e soprattutto del quinquennio successivo alla caduta del muro di Berlino che nel nostro Paese determinò l’avvio di una nuova fase storico-politica che proprio ai giorni nostri volge al termine avviando una nuova transizione dai contorni quanto mai indefiniti e che tuttavia richiama in modo brusco e diretto alla necessità di ridefinire i termini della relazione politica tra memoria pubblica, democrazia e impianto valoriale della Repubblica di matrice resistenziale.

Il punto nodale alla base della riflessione proposta dai «Cantieri dell’Azionismo» risiede nel tentativo di non esaurire l’antifascismo e la Lotta di Liberazione entro il perimetro alto e nobile della Resistenza e di non vincolarlo in modo esclusivo all’individuazione, sia chiaro indispensabile, della Costituzione come traduzione di sistema della lotta 1943-1945.

I termini dell’esercizio plurale della democrazia, il rapporto tra le classi, i diritti di cittadinanza ed i suoi istituti di garanzia segnano una linea d’indirizzo concreta ed interamente antiretorica in grado di «parlare» di nuovo, come nei primi decenni della Repubblica, a quella massa di persone e di nuovi cittadini provenienti dal mondo, che cercano quelle fondamentali forme di protezione ed emancipazione sociale, d’identità solidale e indipendenza culturale che l’assetto elitario della modernità ha loro violentemente sottratto.

Questa appare ad oggi la natura profonda dell’esercizio della politica, individuare i tratti profondi della caratterizzazione democratica con l’obiettivo di rompere, proprio in tempi assai confusi, con l’eterno ritorno di quella che Piero Gobetti chiamava l’autobiografia della Nazione.