Uno tra gli effetti perversi dei recenti rigurgiti neofascisti è stato quello di fare ripiombare lo studio dei fenomenti artistici del primo Novecento italiano nel cono d’ombra della dissertazione ideologica, col rischio di far cadere una pietra tombale sul faticoso lavoro di riscrittura di un periodo storico che ha usato in maniera spregiudicata il mondo culturale, e viceversa. Fin dall’inizio degli anni Ottanta, Fiamma Nicolodi ha speso buona parte delle sue ricerche per illuminare lo sfondo culturale della musica italiana di questo periodo, sforzandosi di definire i rapporti dei nostri musicisti con l’ambiente intellettuale, anche europeo, in maniera non viziata da pregiudizî e luoghi comuni.

I primi cinquant’anni
La narrazione musicologica ha perlopiù liquidato frettolosamente la musica italiana del primo Novecento come frutto incommestibile di un ambiente provinciale e arretrato, schiavo di una tradizione melodrammatica sempre più isolata e grettamente nazionalistica. Le uniche eccezioni allo straripante cattivo gusto di quella che Fausto Torrefranca parlando di Puccini ha chiamato «opera internazionale», sarebbero state la breve ventata futurista e la cosiddetta «generazione dell’80», prive tuttavia della forza di ribaltare le sorti del declino musicale italiano, vuoi grazie alle velleità dei Futuristi vuoi per le tensioni tra i maestri più corredati di strumenti artistici e culturali, come Alfredo Casella, Ottorino Respighi, Ildebrando Pizzetti, Gianfrancesco Malipiero, divisi da gelosie e rivalità personali sullo sfondo di un diffuso opportunismo verso il regime fascista.

Non sempre, però, una simile lettura regge alla prova dei fatti, che Fiamma Nicolodi esamina con scrupolo sulla scia di un lavoro di pulizia di questa incolta boscaglia storiografica, scrivendo Novecento in musica Protagonisti, correnti, opere. I primi cinquant’anni (Il Saggiatore, pp. 287, euro 28,00). Tra le pieghe dei documenti e della pubblicistica del tempo, emerge infatti un contesto musicale più complesso, dotato di una mentalità meno provinciale e più aperta al dialogo con altre forme di espressione artistica e culturale: il Futurismo, per esempio, attende ancora di essere esaminato in tutte le sue diramazioni, nonostante gli studi sulla fitta trama delle sue relazioni con la musica, cui ha dato un significativo contributo anche il pianista e studioso Daniele Lombardi, scomparso prematuramente, che avrebbe certamente saputo portare a galla ulteriori documenti e nuovi testi musicali inediti di grande aiuto per la ricerca.

Su questa mappa ancora da definire nei dettagli, Nicolodi traccia alcuni punti di riferimento, prendendo in esame sia i musicisti di aperta fede futurista, come il romagnolo Francesco Balilla Pratella e il triestino Silvio Mix, sia gli echi della poetica futurista presenti nei compositori di ambiente accademico più sensibili alle sfide della modernità, come Casella e Malipiero. Altrettanto illuminante è il riverbero delle tendenze più attuali della musica europea sulla scena culturale italiana, in cui si distinguono anche critici molto attenti e informati come Giannotto Bastianelli, traduttore per gran parte dell’ambiente letterario italiano del nuovo linguaggio degli impressionisti francesi, Debussy e Ravel, e delle raffinate seduzioni del teatro di Strauss.

Tra Poulenc e Dallapiccola

’Italia del primo Novecento, pur con i suoi limiti, mantenne tuttavia canali di scambio con la grande musica europea, che Nicolodi riscontra per esempio nella cerchia di Busoni. Nomi come quelli di Bruno Mugellini e Gino Tagliapietra sono ormai caduti nell’oblìo, ma furono protagonisti anche di progetti importanti come l’edizione Breitkopf&Härtel dell’opera pianistica di Bach curata da Busoni. Inoltre, la sorpresa, al di là delle Alpi, dellamusica del giovane Petrassi, non faceva pensare a una nazione così ancorata alla tradizione del melodramma.

Particolarmente gustoso il saggio che racconta i rapporti di un artista francese fino alla radice dei capelli, Francis Poulenc, con i colleghi italiani, e in particolare con Luigi Dallapiccola, uno tra i padri della dodecafonia in Italia: divisi in tutto, i due artisti godevano tuttavia di un reciproco profondo rispetto, e di una comune visione della sfera religiosa. Sulla copia di Dallapiccola delle Deux mélodies su poesie di Apollinaire, l’autore giustifica di proprio pugno, con garbata ironia, la dedica al collega: «Un giorno d’estate, scrivendo qualche nota sui versi di Apollinaire, l’ho trovata vagamente dodecafonica: di qui la mia dedica».