La splendida copertina – una foto di un rogo durante una recente manifestazione in Cile – e il curioso titolo del libro possono portare l’immaginazione del lettore in molte direzioni: storiche, geografiche, immaginative, difficilmente però lontano da approdi non iconoclastici.

DOPO LA LETTURA, il testo appare come fondamentale per la documentazione storica di un fatto significativo avvenuto centodieci anni fa, innanzitutto per le oltre cento cartoline d’epoca che documentano l’incendio di circa centocinquanta edifici religiosi durante la cosiddetta «Settimana tragica» di Barcellona – cinque giorni di scontri tra esercito e popolazione che manifestava, sostenuta da anarchici, socialisti e repubblicani, contro l’intervento coloniale in Marocco. Stiamo parlando di Chiese in fiamme (Milieu, pp. 200, euro 22), curato dal gruppo di lavoro Escuela Moderna/ Ateneo Libertario, che «studia le eredità degli ideali illuministi, repubblicani, socialisti e anarchici nelle prospettive del rapporto tra arte, società, didattica, filosofia e territori».

Nel volume, tre articoli di Joan Margall, scritti nei mesi successivi all’insurrezione, contribuiscono a situare l’evento nel clima di un’epoca, ma, vista la ricchezza di pubblicazioni rivoluzionarie di inizio Novecento, forse sarebbe stato meglio registrare la parola anche di chi sostenne e partecipò a quella rivolta. Margall tiene una posizione ecumenica, accusando un po’ (poco) la Chiesa cattolica – che sosteneva il governo – e un po’ (tanto) i manifestanti, insomma la posizione di certi «letterati sempre pronti a rifugiarsi in un soave borgo campagnolo quando l’epoca ruggisce», per citare Paolo Virno.

Margall scrive tra l’altro: «Bombe ed empietà, in particolare, sono una cosa sola: uno sfogo distruttivo dell’incapacità di creare». «Confidiamo nell’eterno spirito che distrugge solo perché è la fonte imperscrutabile ed eternamente creatrice di tutta la vita. Il desiderio di distruzione è anche un desiderio creativo», gli aveva già risposto oltre mezzo secolo prima Michail Bakunin, che aveva studiato bene la dialettica hegeliana, come gli riconosceva anche Marx.

UN CONTRIBUTO interessante è la ricostruzione storica affidata a Matteo Binci, che racconta il colonialismo spagnolo, la settimana dell’insurrezione e le conseguenze. Nelle conclusioni inciampa in un commento che forse uno storico avrebbe potuto evitare: scrive che la ribellione «degenerò», ossia – visto che le parole hanno significato – cambiò in peggio, scadde, giudicando così un fatto storico.

Il merito principale del volume è però lo stimolo alla riflessione estetica e politica contemporanea sull’importanza dei simboli. Tra i saggi contenuti possiamo trovare un intervento sull’iconoclastia, con un parallelismo tra la «Settimana tragica» e l’11 settembre, partendo dalle riflessioni di Baudrillard (operazione discutibile, come confrontare l’impegno delle milizie internazionaliste nella Spagna rivoluzionaria del 1936 con i foreign fighters che si sono arruolati con l’Isis); una fuorviante analisi della distruzione iconoclasta come premessa alla costruzione modernista di Barcellona; uno strano parallelismo tra «libretti rossi» (di Jung, Beuys, Ferrer, Vettori, Mao) che di analogo hanno solo il colore della copertina; il manifesto teorico dell’«Archivio F.X.» di Pedro G. Romero che si propone di «urbanizzare la provincia del nichilismo».

Quest’ultimo contributo è sintomatico del nostro presente avvitato sulla retromania, concetto che Simon Reynolds usa per definire la musica rock attuale ma estendibile ad altri ambiti, e della retrotopia, ossia della fase contemporanea dell’utopia, come sostenuto da Bauman.

Sarebbe forse il caso di riflettere su ciò che Asor Rosa ha scritto in Scrittori e massa, ultima edizione di Scrittori e popolo (Einaudi, 2015): «La Storia è una risorsa formidabile ma impone rigide regole all’invenzione e al rapporto con il pubblico. Se si parla del passato, significa che è più importante del presente, ovvero che del presente, non si può parlare come si vorrebbe» e continua, sollecitando gli scrittori che fanno questa scelta, «per andare incontro al futuro si dovrebbe chiarire meglio se la Storia è una scelta o un obbligo insuperabile, e in ambedue i casi perché». Troppe volte nella letteratura e l’arte contemporanee l’esaltare o lo sminuire figure storiche segnala un’incapacità di analizzare e di agire nel presente.