Sembrano lontanissimi i tempi in cui, all’aeroporto di Kabul, atterra un jet con l’orchestra di Duke Ellington. Lontanissimi. Con il no alla musica dei talebani rimarranno «storia passata» o «testimoni epocali» i pochi clip ancora visionabili in rete, dove ad esempio la cantante Sarhadi Kleret intona una straordinaria, commovente versione di Motherless Child, forse il maggior spiritual afroamericano, accompagnata dagli strumenti locali di un’eccellente band afgana: «Qualche volta mi sento come un bambino senza la madre». Parole e suoni ora drammaticamente attuali.
La domanda urgente, tragica, è dunque cosa rimarrà di una cultura musicale ricchissima, nella cui versatilità il jazz occupa una parte non irrilevante. Tutto infatti, per il jazz afghano, inizia, anche come memoria storica, nel 1963, proprio all’aeroporto sunnominato: non ci sono purtroppo filmati, ma solo una foto in bianco e nero, che ritrae il Duca sorridente sulla pista d’atteraggio; poche ore dopo, di fronte a 5mila persone, a ingresso gratuito, si esibisce con l’orchestra al completo, presso il Ghazi Stadium; è gente curiosa ma ignara di jazz, di swing, di blues, a restare stupefatta, colpita, nel ricordo di Ellington (intervista per Bbc, 1973), soprattutto dagli impasti e dagli assolo di trombe e sassofoni; il successo per Duke e per la propria energetica big band è tale che il re Zahir, con i numerosi famigliari al seguito, va a complimentarsi, negli spogliatoi, con l’intera formazione e con l’organizzatore Faiz Khairzada.

LASCIARE IL SEGNO
Risulta però difficile sapere quanto e come la Duke Ellington Orchestra lasci il segno nei fan e nei musicisti accorsi ad applaudirla; molto più agevole è riconoscere che, da quest’esperienza, il leader-pianista-compositore, assieme al fido arrangiatore Billy Strayhorn, scrive e registra l’album, oggi un «classico», Far East Suite (1967), memore della lunga tournée che riguarda pure altre città quali Amman, Damasco, Beirut, Delhi, Karachi, Baghdad, Teheran. A onor del vero, quello del Duca non è in assoluto l’iniziatico jazz set su territorio afghano; lo precede di un decennio un altro pianista, bianco, intellettuale, modaiolo: si tratta di Dave Brubeck che, nel 1953, suona a Kabul, incontrando privatamente alcuni musicisti locali; e da quei contatti probabilmente compone in seguito l’hit Nomad – inserito nel vinile Impressions of Eurasia – ispirato ad alcune melodie dell’antico Afghanistan.
Data la mancanza di documenti scritti, audio, video – distrutti nel corso delle infinite guerre che dal 1980 devastano un territorio singolare, forse unico in quanto a dinamismo di culture, arti, musiche – resta arduo stabilire quanto Brubeck o Ellington possano far scuola sulle nuove generazioni di ascoltatori e musicisti, che vengono comunque affascinati dal processo di moderata occidentalizzazione del regime monarchico, subentrato al colonialismo inglese.
Oggi i puristi del jazz rimarranno forse delusi nel non trovare un jazz afghano originale, così come in questi ultimi tre-quattro decenni lo si sta creando in altre profonde nazioni asiatiche, dalla Cina all’India, dal Vietnam all’Indonesia, dal Giappone al Kazakistan, nel continente più restio, se non più refrattario, nel corso del tempo, ad aprirsi al sound afroamericano (e pop moderno, in genere) per via di tradizioni locali radicalissime e dunque, fino a un certo punto, resistenti alla globalizzazione sonora. Tuttavia del «villaggio globale», il jazz rappresenta il lato gentile, ecumenico, fraternizzante, pur traendo origini traumatiche, nell’incontro/scontro di tre mondi come le Americhe, l’Asia, l’Europa.
Ma l’Afghanistan, forse a causa delle ininterrotte dominazioni da oltre 3000 anni – macedoni, parti, arabi, mongoli, ottomani, britannici e via via russi, americani, talebàn – esprime tante musiche diverse quante le complesse etnie che lo abitano: si tratta in ambito sia colto sia popolare di linguaggi acustici riconducibili grosso modo a quelli degli stati confinanti, Iran, Turchia, Uzbekistan, Turkmenistan, Kazakistan; è un sound – come rivelano almeno i 4 dischi antologici Afghanistan: A Journey to an Unknown Musical World, Afghanistan Untouched, Rough Guide to the Music of Afghanistan, The Traditional Music of Herat – che gli studiosi di etnomusicologia collocano nelle culture dell’Asia Centrale e che nelle precipue occasioni di recente, o perlomeno già in età contemporanea, si presta a notevoli interessanti fusioni con le esperienze occidentali (classiche, pop, jazz, rock, hip hop).

CONTAMINAZIONI
I momenti di contatto tra il jazz e l’Afghanistan risultano sostanzialmente due: il primo, tra gli anni Cinquanta e Settanta, quando la monarchia tenta di laicizzare il paese, aprendo alle musiche occidentali che talvolta riescono a contaminarsi o sovrapporsi egregiamente con millenari repertori autoctoni; non si parla, come già detto, di jazz vero e proprio, bensì di orchestrine e cantanti dalle motivazioni eterogenee, in grado di assimilare un meccanismo swingante, una melodia sincopata, una moda jazz, un’atmosfera lounge, in un ampio contesto pop folk.
Il secondo momento concerne gli altri vent’anni di «occupazione» americana con una repubblica «indipendente», dove i processi di riaffermazione di identità musicali afghane concernono anche quelle tipologie di etno jazz e di world music, che, in situazioni politicamente stabili (o stabilizzate), producono sguardi lontani, utopie rivoluzionarie, passioni sfrenate o, più semplicemente, aperture concrete verso artisti eterogenei anche e soprattutto di nazioni lontane: ma è la traballante realtà giornaliera a frenare uno sviluppo artistico cosmopolita. Nel vasto catalogo della bavarese Ecm che, sola, da trent’anni, mette in contatto jazzmen euroamericani con solisti asiatici, fino a trovare non solo la conciliabilità di intenti, ma in particolare risultati creativi assoluti, mancano musicisti afghani, con un’unica eccezione – Simin Tander – che vive in esilio.
Succede grosso modo dal 2000 a Kabul e dintorni, quanto verificatosi ad esempio a metà degli anni Sessanta in Sudafrica, quando, per l’apartheid, un’intera generazione di jazzisti si trasferisce a Londra e a New York. E lo stesso accade con la primavera praghese, quando la reazione sovietica cancella la scena rock e jazz cecoslovacca: per chi vuol fare bebop o free non resta che la fuga in Austria e da lì in altre zone libere per le libertà (non solo) musicali. Oggi ad esempio la citata Tander, maggior jazz singer afghana, da sempre vive e lavora in Germania: ma i suoi dischi da Wagma (2011) a Unfading (2020) fino a Folk Tales from Another Land (2011, con David Golek) e Whatsapp Was Said (2016, con Tord Gustavsen e Jarle Vespestad) trasudano di afghan feeling; alla stessa stregua il miglior album, Shams, viene registrato in Lituania dai Baraka, una band mista, metà baltica, metà centrasiatica, che idealmente ripercorre i lavori del tedesco sessantottenne Stephen Micus, forse il primo a usare strumenti musicali afghani (il robaccia, piccolo liuto) accanto a quelli asiatici e africani nei pionieristici lp, tra etno, free, ambient, da Archaic Concerts (1976) fino al nuovo Winter’s End (2021).
Viene da pensare, con una stretta al cuore, dove siano ora le bellissime musiciste della Zorha Orchestra, tutta femminile, che brillantemente eseguono in tournée, anche all’estero, musica classica e tradizionale, spingendosi talvolta verso qualche arrangiamento jazzato. O quale potranno essere i destini via via dei giovani partecipanti al Festival de l’émoi du jazz (creato nel 2009 da Dez Gada in Costa d’Avorio ad Abidjan); dei numerosi caffè nella capitale in cui la jam session diventa quasi la prassi; dei tanti solisti dilettanti che, durante i Seventies, condividevano fumo e schitarrate con gli hippie in sosta verso l’India; dell’Afghanistan International School (che grazie a Wakil Afridi tra il 2015 e il 2019 celebra l’International Jazz Day Unesco, associandolo persino al Young Pioneers Tour nella Nord Corea) dove l’insegnamento alla prassi e alla teoria musicali riguarda quasi tutte le realtà. O se sarà preservata, in università, accademie, conservatori, la memoria storica di grandi artisti quali Daud Khan, Mohammed Rahim Khushnawaz, Ustad Mahwash, Ustad Mohammad Omar, Homayun Sakhi, Zarsanga e il notissimo gruppo Ensemble Kaboul, non a caso quasi tutti all’estero da anni.