Non è necessario considerare El Abrecartas il testamento artistico di Luis De Pablo per accogliere l’ultima opera del compositore spagnolo, andata in scena con successo al Teatro Real di Madrid, come un’aggiunta fondamentale al corpus dei suoi lavori di teatro musicale. Completata già nel 2015 l’opera ha definito una nuova, ulteriore dimensione del rapporto di Luis De Pablo, scomparso nell’ottobre 2021, con lo scrittore e regista Vicente Molina Foix, dai cui lavori il decano dei compositori spagnoli aveva liberamente già tratto due opere El viajero indiscreto e La madre invita a comer.

CON «EL ABRECARTAS» però per la prima volta De Pablo, Leone d’Oro della Biennale Musica di Venezia nel 2020, ha convinto Molina Foix a realizzare egli stesso il libretto dell’opera, concentrandosi solo sulle prime 220 pagine del vasto affresco corale tracciato dal romanzo, che dagli anni Trenta attraversa la guerra civile, la dittatura franchista fino al ritorno della Spagna alla libertà. Si intrecciano elementi intimi e familiari con i protagonisti della letteratura e della poesia spagnola e con la drammatica storia nazionale, con cui oggi la cultura del paese si impegna a fare i conti. Quel mosaico di lettere, biglietti, note di polizia, poemi, discorsi pubblici, foto che costituisce la struttura del romanzo si riflette con programmata frammentarietà nel libretto; non solo, permea anche la scrittura di De Pablo, che struttura la narrazione in un flusso organico quanto variegato, l’incedere piano e naturale del recitativo drammatico attraversato da innesti di citazioni di melodie popolari, frammenti di danze, canzoni dei film di Sara Montiel.

NELLE SEI SCENE con prologo dell’opera si snoda così un doloroso viluppo di memorie il cui alternarsi onirico di episodi viene sorretto da una scrittura orchestrale sapientemente distillata, dalle linee asciutte attraversate da cangianti increspature. Il racconto parte dalla rievocazione della figura, della poesia e della morte di Federico Garcia Lorca, intorno al quale si fanno spazio le figure di altri poeti spagnoli, omosessuali come Lorca, da Vicente Aleixandre ( Nobel nel 1972) a Miguel Hérnandez, morto in prigione durante la guerra civile, ma anche Eugenio D’Ors, contraddittorio impasto di talento, vita dissoluta e credo falangista. Alle personalità reali si mescolano personaggi fittizi, l’enigmatica attrice Manuela, al centro di un triangolo sentimentale, il compagno di scuola e ammiratore di Garcia Lorca, gli ufficiali e perfino un protervo ministro franchista con voce di controtenore. La messa in scena di Xavier Alberti articola bene i piani narrativi delle vicende di questo manipolo di vinti, spezzati dalla guerra o soffocati dalla dittatura, grazie a semplici elementi mobili: un costante divenire in cui i mobili-schedario si compongono in ambienti domestici e pubblici, dalla sala da ballo alla camera d’albergo, dall’obitorio alle lugubri stanze della polizia politica. L’opera non risparmia nemmeno le durezze di un saluto fascista esibito dopo la ridicola ode a Franco affidata all’informatore Ramiro o del suicidio di Andrés Acero, amante di Aleixandre. Sul podio Fabian Panisello guida con gesto attento l’ampia formazione orchestrale e l’ottimo cast, in cui spiccano Airam Hernandez ( Lorca) Borja Quiza ( Aleixandre), Jose Manuel Montero (Rafael) e Vicenç Esteve (Ramiro), Magdalena Aizpurua (Manuela).